CAPITOLO 5

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LUOGO IMPRECISATO

ORA SCONOSCIUTA

Se ne stava rannicchiato sul pavimento senza indumenti. Il cemento grezzo, freddo sulla pelle nuda, odorava di sangue marcio. Quanto tempo era passato? Nella sua testa continuava a contare, almeno nei momenti di lucidità, tuttavia perdeva spesso conoscenza, per cui non aveva alcuna certezza.

La luce bianca era sempre accesa, mentre i rumori che provenivano dal piano superiore tacevano di tanto in tanto, non riusciva comunque a definirne l'eventuale regolarità.

Doc arrivava a orari imprevedibili. Doc era il modo in cui il suo aguzzino definiva se stesso. Lo aveva sempre visto con maschere diverse: Batman, il Joker, il presidente Dixon, Marylin Monroe.

Per qualche ragione, l'ultima con cui si presentò lo fece infuriare. Mai come in quel momento avrebbe voluto avere la forza di alzarsi e colpirlo, fracassare quelle fattezze di plastica e tutte le ossa sottostanti. Eppure non si mosse. Teneva il braccio che Doc gli aveva rotto appena qualche ora prima stretto contro il petto, le gambe raccolte, la testa appoggiata al pavimento.

Doc varcò la piccola porta fischiettando, trascinando nello stanzino una sedia di vecchio e pesante legno tarlato. Dopodiché tornò fuori per ricomparire pochi istanti dopo con una valigetta di lucida pelle bianca che mise a terra vicino alla sedia, e aprì.

Bruce non si mosse, dalla posizione in cui si trovava riusciva a malapena a vedere lacci emostatici, siringhe, fialette. Nella tasca di Doc sporgeva, come sempre, la consueta bomboletta spray e l'antibiotico.

In quel momento non aveva idea di cosa lo spettava, quell'uomo continuava a sperimentare sul suo corpo ogni genere di violenza, nella speranza di far emergere il suo immaginario superpotere. Pareva non riuscire a credere che Batman, l'eroe oscuro di Gotham in grado di fermare criminali dotati di capacità sovrumane, fosse un comune essere umano.

Lo aveva bruciato, tagliato, gli aveva spezzato le ossa di un braccio in due punti e anche diverse costole, gli aveva slogato le articolazioni di spalle e caviglie, aveva tentato di soffocarlo con fumo o nell'acqua. Bruce era talmente esausto e nauseato che non riusciva neanche più a reagire. Crollava a terra appena gli era permesso, senza praticamente più muoversi. Si era orinato addosso tempo prima e aveva più volte vomitato bile e muco striato di sangue, di cui si era inzuppato i capelli e incrostato il volto e il petto.

Non mangiava e non beveva da quando si era risvegliato nello stanzino. Gli unici liquidi che acquisiva erano dovuti all'antibiotico e alla soluzione fisiologica presenti nelle siringhe che il suo torturatore gli conficcava nella carne prima di andarsene. Troppo pochi ovviamente, era disidratato e al limite della sopportazione. Probabilmente non sarebbe sopravvissuto ancora a lungo.

Doc uscì ancora una volta e quando rientrò lo sovrastò scaricandogli addosso una secchiata di acqua gelida. La sensazione fu come una scossa di corrente elettrica, ma Bruce si mosse a malapena. Leccò d'istinto le gocce d'acqua rimaste intrappolate sulle sue labbra spaccate.

«Scusa Bruce, ma cominci a essere eccessivamente puzzolente per i miei gusti!» ridacchiò l'altro, mentre lo fissava con la faccia di Superman.

La maschera era di quelle a basso costo e a ben vedere nemmeno somigliava a Clark. Gli occhi troppo piccoli, la mascella troppo squadrata, il sorriso troppo stupido.

Eppure era la più insopportabile da guardare.

Doc lo afferrò a un braccio e sbuffando e digrignando i denti lo trascinò verso la sedia. Quegli spostamenti generarono fitte di dolore e spasmi ovunque. Bruce serrò i denti, ma ad ogni strattone gli sembrava che gli stesse strappando un pezzo di carne.

Un posto a cui appartengo (Somewhere I Belong)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora