Sulla stessa linea (della vita)

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Linea della vita — Alex W.

Da quando mi ero trasferito a Roma per lavoro, una delle mie costanti giornaliere era la linea B della metropolitana.
Mi ero spostato da Bari a Roma per l'università e, contro ogni aspettativa, con il passare dei mesi la mia scelta di dedicarmi al Marketing si era rivelata azzeccata.
Per uno che nella vita faceva fatica a scegliere persino quali biscotti comprare al supermercato, era già una conquista.
Casa mia si trovava nei pressi della Tiburtina. Non esattamente vicinissimo alla mia università, ma tenendo conto che ho cercato casa all'ultimo momento potevo ritenermi più che fortunato.
Il mio unico coinquilino, Francesco, era il ragazzo più simpatico con cui io avessi mai avuto a che fare negli ultimi anni.
La fortuna non era mai stata dalla mia parte come in quel caso. Peccato solo che lui studiasse alla Sapienza e non a RomaTre con me.
La mia stanza era persino una doppia, quindi potevo rigirarmi allegramente nel mio letto matrimoniale totalmente indisturbato.
Certo, c'erano volte in cui mi sentivo un po' solo quando mi svegliavo in quel letto così grande, ma cercavo sempre di accantonare subito quel pensiero.

Quando mi svegliai quella mattina, trovai il letto stranamente vuoto. Sentivo freddo, nonostante fosse maggio inoltrato, forse perché il mio corpo nell'ultimo anno si era abituato a dormire attaccato al corpo di qualcun altro. Quel letto era definitivamente troppo grande per una persona sola.
Mi alzai di mala voglia, chiedendomi che fine avesse fatto il mio peluche personale (anche se, a dirla tutta, era più probabile fossi io il suo).
Ero talmente giù di tono che, in un primo momento, non mi resi conto della busta da bar posta sul mio comodino insieme ad un biglietto. Quando lo lessi, il mio umore si risollevò visibilmente.
"Buongiorno amore. Sono dovuto correre in palestra perché un mio collega sta male e serviva un sostituto. Scusami se non ti ho svegliato, ma so che ti aspetta una giornata tosta e volevo riposassi il più possibile.
Scrivimi cosa ti dice il prof quando finisce di correggerti la tesi. Cioè, per me spacca. Però fammi sapere lo stesso.
Ti ho preso una brioche. È vuota, le altre erano tutte all'albicocca e so che ti fa schifo. MANGIA.

Ti amo."

I 25 minuti che impiegava il mezzo per fare la tratta "Tiburtina-Garbatella" erano uno dei miei momenti preferiti della giornata. Era quel tempo che impiegavo per lo più a scoprire musica nuova su Spotify, osservare il paesaggio e studiare le persone con cui condividevo il vagone, immaginandone la vita. In genere non vedevo mai due persone per due giorni consecutivi, o per lo meno in un arco di tempo breve. Per questo mi stupii particolarmente quando mi resi conto che, nell'arco di una settimana, avevo visto ogni giorno lo stesso ragazzo sullo stesso sedile, con un berretto colorato diverso ogni volta, ma sempre la stessa sciarpa grigia.

Non vivevamo ancora insieme in quel periodo. Insomma, stavamo insieme da nemmeno 4 mesi.
Certo, passava più tempo a casa mia che sua, ma era ugualmente presto anche solo per alludere ad una convivenza permanente.
Era un pomeriggio di aprile, stavamo studiando nella mia stanza, ognuno le proprie materie.
Stavo tranquillamente appuntando su un quaderno i concetti fondamentali del capitolo che avevo da poco analizzato quando il tonfo di un libro mi ridestò dalla mia concentrazione.
"Ti prego, dimmi che possiamo andare a fare quattro passi fuori, Anatomia mi sta facendo impazzire."
Mi guardava con un'aria distrutta e gli occhioni spalancati come un cucciolo. Teneva una mano in mezzo ai riccioli e l'altra nascosta tra le gambe incrociate.
Mi ero prefissato di studiare almeno un altro capitolo quel giorno, ma dove avrei dovuto trovare la forza per dirgli di no?
Non ce l'avevo, inutile girarci attorno.
"Va bene, ma poi torniamo a studiare. Non più di mezz'ora." Tentai di impormi un minimo.
Lui saltò giù dal mio letto, abbandonando il tomo di anatomia che teneva sulle ginocchia. Si avvicinò a me in due falcate e mi stampò un bacio con uno schiocco così forte da farmi girare la testa.
O forse aveva preso a girare appena mi sorrise felice. Chi può dirlo.
"Sei un angelo, te lo giuro. Non so come fai a sopportarmi." Mise una mano fra i miei capelli e prese a scompigliarli.
"Non lo so nemmeno io, guarda." Ribattei, cercando di tenere un topo piccato. Tenevo all'ordine dei miei capelli. Certo, da lui me li sarei fatti mettere in disordine tutti i giorni se questo mi avrebbe garantito eternamente il suo amore, ma non era certo necessario che lui sapesse quanto schifosamente sottone io fossi.
"Cazzate. Hai qualcosa da prestarmi? A giudicare dal cielo grigio sembra non faccia poi così caldo come stamattina."
Mi alzai, imitando una svogliatezza che in realtà in quel momento non mi apparteneva affatto, per il semplice gusto di mostrarmi indispettivo. Mi diressi verso l'armadio e ne tirai fuori un maglione che potesse abbinarsi alla camicia a scacchi che indossava ed una sciarpa grigia. Quella sciarpa grigia.
Gli lanciai tutto addosso, i suoi occhi caddero subito sul tessuto morbido che, fino a qualche mese prima, apparteneva a lui.
"Questa la fece la mia nonna quando avevo 16 anni. È stato il suo ultimo regalo prima che se ne andasse."
Al solo vedere la sua espressione triste e malinconica, avvertii una fitta pungente allo stomaco.
"Vuoi che te la restituisca? Io... perdonami, avrei dovuto chiedertelo, ne ho preso il possesso senza sepere. Scusa, davvero. Per me puoi..."
"Mattia" fermò il mio soliloquio "non te l'avrei mai lasciata se non avessi voluto che la tenessi tu." Ed il sorriso dolce che mi riservò mi portò a pensare cose folli, tipo che quella sciarpa me la sarei portata persino dentro la tomba.

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