MISTERO

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Carissimo,

comprendo perfettamente il tuo scetticismo di fronte a certi fenomeni ed in parte condivido le tue parole. Tuttavia, scendendo un po' più nel profondo, la natura, la vita e l'esistenza presentano più mistero, magia ed incanto di quanto si possa immaginare. E definisco mistero ciò che è difficilmente verificabile, per cui nell'atto di tentare tale ispezione, invece di avere risposte ed un quadro chiaro del fenomeno, crescono le domande, facendoci naufragare in un oceano da cui non si vede mai terra. Ma in fondo perché invece di denudarli spudoratamente e vanamente non ne assistiamo semplicemente affascinati? A supporto di questo mio pensiero ti scrivo quanto segue.

Al giorno d'oggi, ad un fanatismo religioso si contrappone spesso l'arroganza di un totalitarismo ateista o idolatra, entrambi caratterizzati dalla stessa (non innocua) ingenuità.

Uno nell'imporre che l'indimostrabile sia verità assoluta, mentre ciò di cui non abbiamo esperienza, poco si può dire con certezza: un mistero si dice mistero, se vogliamo chiamare le cose con il proprio nome; un gatto di Schrödinger che resta nella scatola in cui essere e non-essere coesistono nel terzo escluso, l'indecidibile. L'altro nel pensare che tutto sia dimostrabile, mentre spesso si giunge ad un paradosso gnoseologico, quello di dover conoscere la conoscenza con altri mezzi per avere dei termini di paragone con cui svelare il mistero della coscienza e della rappresentazione di una realtà, la cui equivalenza con la logica, presuppone una sorta di atto di fede nella logica stessa.

Volendo essere scettici, pare che ciò che chiamiamo "verità" sia in fondo una percezione che presuppone un aprioristico "senso del vero", il quale coinvolge diverse sfere della conoscenza di cui si fa criterio e valore, come l'esperienza, l'intuizione, il linguaggio fino alle più razionali argomentazioni.

Ambedue i fenomeni hanno un'intenzione comune, l'eliminazione del dubbio, mentre questo è parte integrante delle dinamiche del pensiero a cui conferisce profondità, un operatore mentale di negazione che crea la dimensione del "poter essere", uno spazio in cui le cose, ridotte ai minimi termini, sono l'opposto di ciò che crediamo, mettendo fra l'altro in discussione gli stessi parametri di giudizio con cui valutiamo l'atto conoscitivo.

L'incertezza è intrinseca alla natura e dunque a noi stessi, che a modo nostro ne facciamo parte; il pensiero che non si lascia cogliere dal dubbio e rifiuta il concetto di "probabilità" è clinicamente detto "delirante".

Per fugare il dubbio è richiesto un atto di fede che va riconosciuto come tale, senza pretese assolutistiche, un affidamento temporaneo ad un criterio di verità che potrebbe variare nella maniera più generale da un immediato "è reale in quanto lo avverto come tale" ad un più indiretto "è reale in quanto razionale secondo le nozioni e gli strumenti logici di cui dispongo"; oppure banalmente "è vero perché la maggioranza delle persone pensa che sia vero" o ancora un pragmatico "è vero perché funziona".

Ogni criterio, che potrebbe concludersi con "...dunque lo percepisco attraverso la coscienza come tale", applicato alla percezione, non solo sensoriale ma intesa in senso lato come attività propria della coscienza, ne partorisce un valore di verità (dipendente dal criterio usato) che sembra conferire un valore morale alla conoscenza, "giusta o sbagliata".

La millenaria "ricerca della verità" potrebbe avere avuto come motore proprio un'esigenza morale, la ricerca di costanti e di leggi che la natura doveva per forza rispettare, le quali si opponessero in qualche modo alla profonda insicurezza del "panta rei" della vita quotidiana; la creazione di un mondo eterno e perfetto che mettesse tutti d'accordo, formato da reti concettuali e di elaborate quanto prodigiose tautologie (pensiamo al linguaggio matematico), in cui verità, giustizia e bellezza si fondessero insieme per contrastare una realtà il cui imprevedibile e minaccioso divenire non è altro che la libera manifestazione delle sue ambiguità e delle sue possibilità.

Questo approccio, forse un po' riduzionistico e in stile "maestro del sospetto", non vuole affatto sminuire i risultati di ciò che chiamiamo conoscenza, progresso scientifico e tecnologico, piuttosto è un invito a guardare cosa si nasconde "dietro le cose".

Il fatto che nelle cosiddette "verità di fede" ci sia una logica e al contempo nelle "verità di ragione" si celi un certo dogmatismo, ci invita alla prudenza e a recuperare un socratico "so di non sapere" che mitighi la diffusissima cultura del "io so, so di sapere e dove non so magari invento".

Fino a che punto possiamo dire di avere delle certezze assolute in mancanza di un parametro di giudizio definitivo?

A volte certi misteri vanno presi non troppo sul serio, ma anche per quello che sono e rispettati in quanto tali: si tratta in fondo di lasciare aperta la possibilità di farsi stupire dalla vita. Ci vuole dunque prudenza quando è l'enigma il protagonista di un fenomeno: osservare un ossequioso silenzio quando è il segreto ad essere l'attore principale di una storia è più saggio che profanarlo con presunte certezze.

Sarebbe bello parlarne dal vivo, ma la distanza purtroppo al momento non ce lo permette.

Aspettando una tua risposta, ti saluto con affetto.

A.

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