04. INTERNO CAFFETTERIA - GIORNO

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La caffetteria era piena.

Gente seduta ai tavoli, gente ammassata al bancone, gente fuori. Gente dappertutto. Eppure tutti i movimenti sembravano perfettamente coordinati, nessuno che prendesse contro a nessun altro, nessun rumore di troppo.

John, in piedi, osservava tutto con stupore e fastidio, quelle facce erano troppo giovani e troppo belle. Di certo troppo vicine.

A un tratto, il tintinnio della porta che viene aperta, alcune teste che si girano, un urlo da fuori. Tutti fermi per un attimo, poi un vocio crescente, qualcuno che sbuffa.

Rifare.


«Ti abbiamo trovato una parte, John.» disse Mister White, un filino troppo allegro, tamburellando sul dossier. «Non è il sogno di tutti fare l'attore? Il cinema, la fama... oh, tu sì che diventerai famoso, John!»


La caffetteria era ancora piena.

Gente ovunque, discorsi d'una banalità sconcertante.

John, sempre in piedi, sentiva gli abiti troppo stretti e troppo color pastello. Il fastidio andava aumentando.

Le facce davanti a lui gli sembravano tutte uguali, sorrisi di porcellana, occhi di vetro.

Il tintinnio della porta, di nuovo. Di nuovo quell'urlo, da fuori, perentorio. Tutti fermi. Vari sbuffi.

Un'altra.


«Pensa a quanto si parlerà di te, John.» proseguì Mister White. «Nessuno dimenticherà la tua interpretazione. Un killer che recita la parte di un attore che recita un ruolo solo per poter fare il killer... questo è metacinema, è roba da Cahiers, quelli dell'Academy dovranno inventarsi una nuova categoria.»


La caffetteria continuava a essere piena.

Facce su facce, i soliti discorsi. John ormai avrebbe potuto fare tutte le parti, parlare lui per tutti quanti, gli sarebbe bastato togliersi quel maledetto gilet color crema, orribilmente abbinato alla camicia verdina. A pensarci, era la seconda voce nel suo personale elenco delle impellenze, potersi cambiare, uscire da quella caffetteria e potersi cambiare. Prima veniva solo il tener d'occhio la porta, lui sarebbe entrato da un momento all'altro, lo sapeva, ne intuiva già la sagoma attraverso le vetrate opache. Una sagoma che si avvicinava all'ingresso con passo sbarazzino. Troppo sbarazzino, visto che, ormai alla maniglia, quella sagoma era andata giù, dritta per terra, fuori dalla visuale. Aveva oscillato, aveva cercato l'equilibrio, poi era andata giù. Il tizio doveva essere inciampato in qualcosa, forse il proprio ego, più credibilmente un cavo, fatto sta che la porta non si sarebbe aperta. Da fuori, una timida imprecazione sovrastata dal solito urlo, più irritato che mai. Dentro, nei pressi del bancone, qualche bocca s'era fatta ghigno, qualche sguardo divertito aveva cercato complicità in giro e anche John, a modo suo, aveva sorriso.

Tutto da rifare, di nuovo.


La caffetteria era piena.

Era sempre piena, quella caffetteria.

Piena delle stesse facce, nelle stesse posizioni, pronte alle stesse frasi, parola per parola, intonazione per intonazione, la voglia sottopelle di venir fuori meglio delle altre.

Dalla sua posizione privilegiata, John teneva d'occhio tutta la sala, dissimulando l'insofferenza che covava dentro per gli sguardi che si sentiva addosso. Teneva d'occhio la sala e la porta, di lì a poco il suo obiettivo sarebbe entrato. Lo faceva sempre, quando riusciva a non cadere. Sarebbe entrato, nello stesso modo sbagliato delle altre volte, ma che forse si sarebbero fatti andare bene.

E infatti fu così.

Entrò.

La porta si aprì e si richiuse dietro di lui, insopportabilmente bello. Qualcuno, forse anche John, trattenne il respiro, attese l'urlo, era chiaro che quell'entrata non era meglio delle altre, ma l'urlo non venne, l'apnea si trasformò in azione. Il tizio, bello e insostenibile, iniziò ad avanzare verso il bancone, dove stava anche John, salutando a caso gente che ricambiava con gesti esagerati, mani per aria, porcellane in esposizione, parole prossime all'urlo. Salutava, il tizio, e schivava corpi, sedie, masse, quel suo passo sbarazzino e traditore, i vestiti a cadergli addosso con taglio perfetto, troppo. Arrivò al bancone e si avvinghiò a una ragazza iper-truccata, super-convinta e ipo-vestita, immobile da ore sullo stesso sgabello, vittima della paura di spostare anche uno solo dei ricci che le avevano scolpito in testa. Quando si staccarono l'uno dall'altra, con scambio reciproco di saliva, glitter e cipria, il tizio, un po' meno bello ma pur sempre baldanzoso, guardò John e parlò.

«Un cappuccino, amico, con tanta schiuma.»

Gli fece pure l'occhiolino, poi si voltò verso quella che chiaramente non era sua sorella. «Tu cosa prendi, Brenda Lee?»

«Un espresso, Billy Joe. Lo sai, il latte proprio non lo digerisco.» rispose lei, la peggior voce di sempre, un manifesto al doppiaggio.

John, barman provetto in divisa pastello, sorrise come da sceneggiatura, si girò verso la macchina del caffè e prese tazza e tazzina.

Da fuori, salvifico, arrivò l'urlo, quello di sempre, ma in tono ben più rilassato. «Stop!»

Nell'attimo in cui la scena veniva data per buona, John strinse troppo forte la tazzina, spaccando la porcellana sbagliata.

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⏰ Ultimo aggiornamento: May 22, 2015 ⏰

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