Back to home

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«Sono passate due settimane da quando alcuni dei ragazzi scomparsi al compimento dei sei anni sono misteriosamente tornati a casa. Nessuno di loro ha dei ricordi su ciò che è successo nel lasso di tempo della loro scomparsa.
"Potrebbero aver passato l'inferno" commentano alcuni psico-». Spensi la televisione prima che dalla bocca di quella giornalista potessero uscire altre delle numerose teorie che si erano formate sul mio conto e su quello degli altri ragazzi.

Mi alzai dal divano, lasciando cadere a terra il telecomando, producendo un rumore fastidioso.

«Yuk?» domandò subito mia madre.

«Niente, mamma! Tranquilla!» risposi alzando la voce, in modo che potesse sentirmi dall'altro lato di casa.

Mi chiamo Yuk Ji-Won, o, almeno, questo è il nome che i miei genitori mi avevano detto di avere. Quando, due settimane fa, avevo riaperto gli occhi nel mio letto, ricordavo tutto quello che era successo. O almeno, tutto quello che pensavo fosse successo. L'ultima cosa che ricordavo, era di essere andata a letto il giorno prima del mio sesto compleanno. E ora avevo ventidue anni. Ventidue. Questo significava che avevo un vuoto di sedici anni. Non sapevo dove fossi stata, tantomeno cos'avessi passato, ma tutti i ricordi fino a sei anni (o almeno quelli che un bambini di sei anni poteva ricordare) erano a posto. Tranne uno: il mio nome.

Quando i miei mi dissero che mi chiamavo "Yuk Ji-Won", ne rimasi sorpresa. Non sapevo di chiamarmi così. Anzi, ero certa di avere un altro nome. Uno completamente diverso, ma non ricordavo neanche quello.

In quelle settimane, i miei genitori avevano fatto un continuo via-vai tra l'ospedale, gli psicologi e casa. Di scuola non se ne parlava proprio. Non solo erano profondamente spaventati che qualcuno potesse nuovamente rapirmi, ma non potevo neanche volendo. A ventidue anni avrei dovuto fare l'università, ma il mio livello di istruzione girava intorno a quello di un bambino di quinta elementare. Di un bambino di dieci anni.

Sospirai. Mi infastidiva non poter tornare alla normalità e mi infastidiva ancora di più non poter uscire. Mi sentivo chiusa in gabbia, là dentro.

Sentii dei passi dietro di me. Afferrai d'istinto il telecomando da terra, lo strinsi e lo avvicinai alla gamba destra.

Mia madre entrò dalla porta e mollai il telecomando.

«Sicura?» mi chiese in tono gentile. Lo nascondeva bene, ma si vedeva che era preoccupata.

«Sì, non preoccuparti. È solo caduto il telecomando».

«Capisco» disse. «Se hai bisogno, chiamami».

«Certo».

In quei giorni, avevo iniziato a leggere varie dichiarazioni di persone rapite o scomparse, e alcune di loro avevano paura ad uscire o essere lasciate soli. Io no, o, almeno, non proprio.

È difficile da spiegare, ma non avevo attacchi di panico o di ansia quando mettevo piede fuori casa o stavo da sola in una stanza (anche se non mi sentivo a mio agio, come se non ci fossi abituata), ma appena sentivo dei passi o il pericolo imminente... forse quegli psicologi avevano ragione: forse avevo davvero passato qualcosa di così traumatico da averlo rimosso.

Guardai il punto dove prima c'era stata mia madre. Forse avrei dovuto parlarne. Sentivo il bisogno di dirlo a qualcuno, alcuno che mi capisse. Non sapevo se lei, o mio padre, potesse farlo, ma era meglio che starmene zitta. Dopotutto, dovevamo recuperare il tempo perduto.

Provare a contattare gli altri ragazzi scomparsi era fuori discussione. Mi sarebbe piaciuto farlo, ma, a parte i loro nomi, non sapevo niente. Né dove abitassero, tantomeno come contattarli.

Guardai fuori dalla finestra alla mia destra. Vedevo i palazzi di fronte e un pezzo di cielo. 

Si sentivano così gli uccelli in gabbia?

Humour Town, raccolta humourDove le storie prendono vita. Scoprilo ora