𝟏.𝟏𝟖 - 𝐩𝐚𝐮𝐫𝐚

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La pedana che collegava il Quinjet alla terra ferma si abbassò con lentezza, ma Steve era troppo distratto dai suoi pensieri per rendersi conto di quanto ci impiegasse a scendere. Il suo sguardo era teso, perso nel vuoto, dritto di fronte a sé seppur non stesse effettivamente guardando. Non aveva nessuna ferita addosso, non c'era stata nessuna lotta, se fosse partito senza uniforme e scudo probabilmente non avrebbe fatto nessuna differenza.

«Steve» lo chiamò una voce femminile alle sue spalle, all'interno del Quinjet proprio come lui, e lui si voltò incrociando lo sguardo di Sharon Carter. Anche lei leggermente tesa, ma intenta a non allontanarsi dall'uomo che sedeva in una delle tante seggiole del veicolo. «Che dobbiamo fare con lui?»

«Al Raft insieme a tutti gli altri. Occupatene tu, chiama Maria Hill» ordinò, freddo e risoluto.

Non gli importò di risultare palesemente nervoso e scontroso nei suoi toni, era certo che Sharon sapesse bene il perché e che persino lei non fosse ritornata di certo felice da quell'interrogatorio. Osservò l'uomo in manette, Alexander, in modo così cruciale che se avesse potuto ucciderlo con uno sguardo lo avrebbe fatto. Ed in genere, lo avrebbe fatto con tutti coloro che avevano a che fare con quella storia.

La missione era andata bene. Avevano ottenuto più informazioni, non troppe, ma sufficienti per procedere con altre ricerche. Il punto era che, pur avendo ottenuto le informazioni che servivano, non necessariamente questa cosa risultò essere un bene. E Steve non riusciva a restarsene tranquillo sapendo che cosa avessero scoperto, soprattutto perché per un momento gli sembrò essere tornato di nuovo indietro nel tempo in anni in cui etichette e associazioni erano i suoi nemici numeri uno.

Non andava bene. Non andava per niente bene. Voleva chiudere quella storia il prima possibile, invece più andavano avanti e più saltavano fuori cose che sperava di non rivedere più nella sua vita. Per quanto sapesse che quello fosse il suo mondo, che missioni del genere gli erano sempre capitate, c'erano dei momenti in cui si rendeva conto di aver bisogno di una maledetta pausa. Voleva staccare la spina, avere una vita normale, invece si ritrovava a combattere contro criminali il cui obbiettivo era sempre e solo uno. La conquista. L'essere onnipotente. Non importava cosa comportasse o i mezzi che servissero per arrivare a ciò, per i criminali ogni movente era buono per raggiungere il proprio obbiettivo.

Steve era stanco.
Dovette ammetterlo.

Quando la pedana si aprì definitivamente, e smise di guardare il bastardo all'interno del Quinjet accanto a Sharon - augurandosi che sarebbe finito, anche lui, in carcere - tornò a guardare l'esterno. Era ormai sera tardi, avevano oltrepassato persino l'orario di cena, ma Steve non aveva fame. Voleva solo concludere quella giornata di lavoro, avvertire i suoi compagni di ciò che stava accadendo, e provare a dormire pur di alleviare quella rabbia che si era instaurato dentro di lui dopo aver interrogato quell'uomo.

Uscì frettolosamente e, non appena alzò lo sguardo verso l'ingresso, trovò una persona a lui familiare poggiato con la spalla al muro. Bucky guardò Steve con un mezzo sorriso, inteso come un saluto vero e proprio, ma più Steve si avvicinava a lui e più non riuscì a non notare lo sguardo teso che vi era sul suo volto. Cosa che, persino al soldato, dimostrò che durante quella missione fosse accaduto qualcosa che poco era piaciuta a Steve.

𝐀𝐧𝐢𝐦𝐞 𝐫𝐨𝐭𝐭𝐞 » 𝐒𝐭𝐞𝐯𝐞 𝐑𝐨𝐠𝐞𝐫𝐬Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora