Capitolo I - Evasione fallita

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Il sole batteva insistente sulle finestre socchiuse delle case, sui ciottoli caldi delle strade, sulle mattonelle cocenti dei ponti. Scaldava il metallo delle inferiate, le punte delle lance delle guardie e le spade, ancora nei fodera di cuoio.
Si potrebbe dire con assoluta certezza, o quasi, che una giornata così limpida e così calda sia la giornata meno adatta per evadere, o far evadere qualche d'uno.
Ovvio, direte voi, nessuna storia vede evasioni, rapine o misfatti simili sotto i raggi caldi di mezzodì. Perché mai qualcuno dovrebbe organizzare qualcosa di così pericoloso e di così segreto proprio nell'ora più calda e luminosa del giorno?, vi starete chiedendo. Beh, perché nessuno potrebbe sospettarlo.
Pensateci. Se questa storia fosse iniziata con "in una cupa e nera giornata d'inverno, sul far della sera, mentre le nubi cedevano il posto alla foschia del crepuscolo…" avreste dato per scontato che, quasi sicuramente, sarebbe successo, di lì a poco, un qualcosa d'insolito. Lo stesso avrebbero pensato le guardie sparpagliate nella piazza di fronte all'ingresso delle prigioni.
L'imprevedibilità del momento scelto, però, non sarebbe l'unico motivo per una tale scelta: il caldo provocato dal sole così alto infastidisce chicchessia, figurarsi qualcuno in piedi dall'alba, con pesanti lance in mano, uno spadone appeso al fianco e un grande scudo da reggere sulla groppa.
Così, una mattina calda, afosa anzi, di fine estate, qualcuno era nascosto dietro un'arcata ben lavorata posta fra due muri, a segnar la divisione fra il Borgo Vecchio e il Cortile delle Armi.
Stava spiando da dietro quel muricciolo dalla mattina e aveva tenuto il conto dei cambi di guardia per giorni. Precisamente, da tre giorni e otto ore, quando si era accorta che nel terzo cambio della guardia del giorno v'era un vuoto di due minuti.
La campana del Borgo Vecchio stava battendo il primo rintocco delle dodici e le due guardie in piedi davanti alla porta, immobili come statue e con le alte e raffinate lance lucenti in mano, avevano fatto un cenno a un compare nell'angolo nord della piazza, appoggiato ad una colonna sotto il portico, e si erano allontanate a passo svelto, abbandonando l'immobilità e la compostezza di quella mattina.
Poi, a quel punto del cambio, sul terzo rintocco, sapeva che ci sarebbe stato uno scambio di informazioni su quanto avvenuto in quelle ore trascorse da pochissimo, proprio sotto il portico di nord. Infatti, le due guardie si affrettarono a nascondersi all'ombra fresca del porticato. Aveva semplici colonne avvolte da rampicanti verde smeraldo, che piantavano radici in una piccola zolla d'erba ai piedi di ogni colonna, proprio davanti.
Le quattro guardie rimasero a confabulare un po', fino al dodicesimo rintocco. In quel lasso di tempo, però, il nostro personaggio era riuscito a sgattaiolare fra il chiaroscuro del portico fino alla porta, posta strategicamente a sud sotto il sole, che aveva aperto silenziosamente, ringraziando la raffinatezza degli abitanti del luogo per non aver costruito un grande portone pesante e cigolante come si leggeva spesso nei romanzi.
Così, in breve, si ritrovò in un lungo e ampio corridoio ad archi, intagliato finemente, sempre di quel materiale così simile al legno, ma freddo e duro come roccia pura.
Sottili rami di luci si arrampicavano sulle grate delle celle, che correvano tutte sulla sua destra, fino a perdersi dalla vista. Probabilmente le gallerie correvano fin sotto le colline, immergendosi nell'oscurità.
Sulla sinistra c'erano molte porte, finemente lavorate, chiare come quella da cui era appena passato.
Non c'erano guardie, lì dentro, anche perché c'erano ben pochi prigionieri e tutti nelle prime celle, quelle ancora illuminate dal sole che filtrava dalle finestre.
Così, si infilò indisturbato in una delle porte, quella in cui sapeva avevano rinchiuso il prigioniero che intendeva far evadere.
Il nostro furfante non aveva idea di cosa contenessero le altre porte, né cosa quella che stava aprendo nascondesse realmente, sapeva soltanto che dietro quella si trovava il prigioniero. E questo perché ne aveva giusto sentito parlare un qualche giorno prima.
Si richiuse alle spalle la porta con un movimento cauto, nonostante avesse ormai capito che lì dentro le porte non cigolavano, perché erano sempre ben oliate, e le finestre non si appannavano, perché la magia bandiva l'umidità dai vetri.
Davanti a lui si srotolava un corto corridoio, fiochemente illuminato, povero di decorazioni.
Proprio in fronte al nostro sconosciuto personaggio c'erano delle grate. Non molto spesse, ma di un metallo dalle sfumature particolari: bianche a tratti, argentee ad altri, e con fili di colore che ne attraversavano a tratti la superficie conica, come sinuosi serpenti scattanti.
Dietro, all'interno della prigione, c'era una piccola lampada, simile a quelle del corridoio, ma quasi spenta, come se i carcerieri non volessero che la cella fosse troppo illuminata.
Così, contro ogni istinto di sopravvivenza, il nostro furfante si avvicinò cautamente alle sbarre, cercando di scorgere il prigioniero, ma stando sempre ben attento a nascondere il volto con il cappuccio chiaro del lungo mantello.
-Ciao - salutò, tenendosi comunque ad un passo di distanza dalla prigione - Io sono Arlen- si presentò, non sapendo bene come cominciare. Vedendo che dalla cella non arrivava risposta, il furfante penso che il prigioniero lo credesse una guardia anche lui, così abbassò velocemente il cappuccio, mostrando le lunghe ciocche biondo grano, lasciandole libere di incorniciare un viso affilato e troppo femminile per appartenere ad un ragazzo.
Dalla prigione non giunse alcun cenno di sorpresa.
-Voglio aiutarti - provò, cercando di non intimorire il prigioniero.
Da dietro le sbarre si mosse qualcosa e, dopo poco, un paio di sottili mani affusolate strinsero saldamente le grate. Un paio di occhi color della notte, scuri quanto il manto di una pantera, la scrutavano, con diffidenza.
-Perché dovresti? - domandò una voce, un poco rauca. Un tempo doveva essere stata bella, ma il poco uso e l'umidità dovevano averla rovinata.
- Perché no?
- Sei un'allucinazione- decretò il prigioniero, facendo per tornare nella penombra della cella, dopo qualche minuto di attenta osservazione.
- No, aspetta- supplicò lei, cercando di non parlare a voce troppo alta, per timore d'essere udita dalle guardie.
- Cosa?- domandò il prigioniero, ma tornò ad affacciarsi alle sbarre, mostrando un volto un poco scarno, ma indubbiamente femminile. Un lieve barlume di speranza si aggrappò alle gote troppo sporgenti, penzolando sopra le guance troppo smunte, e dondolandosi avanti e indietro si rigettò nella mente della giovane, celandosi di nuovo.
- Come ti chiami?- domandò Arlen, continuando ad osservare la prigioniera.
- Joan- rispose - O Jo, dipende- aggiunse, con quello che doveva somigliare ad un sorriso.
- Perché vuoi aiutarmi?- domandò ancora, vedendo che l'altra non accennava ad una parola, sempre con quella voce roca. Le unghie delle dita erano sporche, spezzate, e artigianato con furia le grate della cella, evidenziando a quella luce pallida i tagli rossi tutti attorno.
- Perché non hai fatto niente.
- Non è vero- commentò, con quella che sembrava ironia - Sono umana, basta questo, no?
- No, non è sufficiente per rinchiudere una persona così…- ma Joan la interruppe.
- Davvero? Perché mi vuoi aiutare?- scandì, continuando a scrutare gli occhi chiari della giovane di fronte a lei. Era quasi certamente una delle molte allucinazioni dovute all'oscurità, ma era tanto reale… era tanto vicina… era tanto confortante sentire di nuovo quell'inclinazione familiare nella voce di qualcuno, dopo tanto tempo a sentire soltanto quell'accento tipico di quelle terre oltre la foresta.
- Perché sei umana, proprio come me- rispose, dopo qualche secondo di esitazione in cui aveva deciso di fidarsi.
- E perché, se sei umana, non sei in una prigione come me? Perché sei ancora libera?- domandò, molto più diffidente. Se era un'allucinazione, la sua mente stava iniziando a tirarsi da sola dei tiri mancini; se, invece, era davvero lì, doveva essere proprio incapace di contar frottole.
- Perché credono che sia una di loro- Jo la scrutò ancora per qualche istante, poi si scostò dalla grata, liberando le inferriate dalla presa dei sanguinamento artigli.
- Hanno ragione- e tornò un poco distante.
- Come fai a dirlo?- bisbigliò, avvicinandosi ancora alle sbarre.
- Non sbagliano mai- spiegò solo, prima di nascondersi meglio nell'oscurità della prigione. Loro non sbagliavano, non sbagliavano mai. Se ne era accorta, li aveva visti. L'aveva visto, quel ragazzino incappucciato, mentre misurava con cura il tempo in cui condurre l'interrogatorio, per poter interrompere esattamente un secondo prima della rottura definitiva. L'aveva visto, l'aveva visto.
Proprio in quel momento la porta alle sue spalle si aprì, tanto silenziosa che quasi Arlen non se ne accorse nemmeno. Joan, però, riconobbe immediatamente il passo quieto del nuovo venuto e si ritrasse alla svelta.
-Cosa ci fate qui? - domandò qualcuno è solo a quel punto la giovane ammantata si voltò, arretrando appena.
- Io…- cominciò, ma si interruppe quando si accorse di non sapere che cosa dire. Che inventare?
- Dovete uscire di qui, immediatamente- intimò l'altro, avvicinandosi di un passo. Così facendo, però, finì proprio sotto la luce debole e calda delle lampade, che illuminarono subito la leggera armatura e le due spade arcuate che portava agganciate ai fianchi. Le lame, illuminate dalla luce, brillarono come lanterne, rispecchiandosi in uno sguardo freddo e tagliente, reso ancor più gelido da sfumature color smeraldo, insolite in quelle iridi di platino.
- So chi siete, guardiana, e solo per questo non vi denuncio- dichiarò la guardia, avvicinandosi di pochi passi - Se doveste riprovarci, non assicuro di potervi difendere di nuovo, Arlen Laine- concluse, facendole poi cenno di seguirlo.
- Aspettate- ordinò la giovane e quando la guardia si voltò di nuovo verso di lei, intravide grande irritazione fra le sfumature smeraldine - Non potete tenerla qui, non ha fatto niente di male- disse, accennando alla cella dietro di lei ed a Joan. Era importante per loro, le avevano detto quand'era arrivata. Ecco, era giunto il momento di scoprire su che gradino si posizionata nella scala delle priorità dei kriptes. Prima o dopo l'umana? Non rimaneva che scoprirlo.
- È umano, basta questo- rispose, mentre un bagliore cupo scintillava nel suo sguardo, illuminando per un istante il platino.
- Ora seguitemi e non dite nulla.
Mentre la guardia tornava a voltarsi verso l’uscita, Arlen intravide qualcosa scintillare al polso semiscoperto della guardia, ma scomparve talmente velocemente che credette di esserselo soltanto immaginato.
-Allora? Ho conosciuto gli umani, sono cresciuta con loro- omise che anche lei era effettivamente umana, o almeno a suo dire - Non sono…- ma si interruppe. Non sono cosa? Perché quei guardiani avevano così tanta rabbia repressa dentro di loro contro gli uomini? Cos’era successo di così grave da rendere impossibile una convivenza?
- Voi non avete idea di cosa sia successo, vero?- indovinò la guardia, fermandosi all'improvviso e tornando verso di lei con passo quasi felpato. Joan, invisibile nell'ombra cupa, si fece più attenta: forse avrebbe scoperto perché l'avevano tanto a lungo tormentata con quelle loro domande.
Si avvicinò alle sbarre della cella, rimanendo a pochi passi da Arlen. Se avesse voluto, la giovane avrebbe potuto scappare facilmente verso la porta, visto che non era più bloccata dal soldato, ma rimase immobile per due motivi: primo, lei non aveva intenzione di andarsene di lì, secondo, sapeva bene che quella spada non era l’unica arma di cui disponeva la guardia e che questi non le avrebbe permesso di andarsene finché non avesse ascoltato ciò che aveva da dirle sugli umani.
Il giovane scrutò per qualche minuto dentro la cella, come se riuscisse a scorgere l’umana rinchiusa lì dentro, per poi voltarsi di nuovo verso di lei. Scoprì lentamente un fianco dalla camicia chiara che indossava sotto il sottile busto di cuoio, mostrando così una cicatrice chiara e sottile, quasi invisibile, ma che correva dall’ultima costola al bacino.
-E’ stato un umano- spiegò, nascondendo di nuovo la vecchia cicatrice con la camicia - Quand’ero bambino. Mio fratello mi ha salvato, cacciando l’uomo, ma se non fosse stato per lui, oggi non ci sarebbe stato nessuno a impedirvi di liberare quell’essere- commentò, accennando all’umana dietro le sbarre con un disgusto ben in mostra.
“Forse sarebbe stato meglio se fossi stato figlio unico, sai?” pensò, ma si guardò bene dal dirlo a voce alta.
Non l’aveva colpita la ferita, in quel discorso, ma una frase: “Quand’ero bambino”. Non riusciva proprio ad immaginarsi un uomo, che si figurava con il viso di suo padre, ferire un bambino. Certo, sapeva che c’erano persone crudeli o malvagie nel loro mondo, ma nel piccolo borgo di Norvaa non c’erano nemmeno borseggiatori.
Poi, che l'aveva fatta preoccupare sul serio, era stato “quell’essere”. Cosa avrebbero fatto quando avrebbero scoperto che era anche lei un’umana?
- Siete l’ultima kripte draach, Arlen, non potete stare con gli umani- concluse, continuando a scrutarla senza perdersi nemmeno un minimo movimento.
- Io non…- iniziò, ma si zittì subito, mordendosi la lingua. Zitta, zitta, zitta.
- D’accordo…- iniziò, aspettando un nome che non arrivò - Forse hai ragione- proseguì, quando la guardia si incamminò verso l’uscita, riuscendo a trattenerlo. In quel momento non si accorse, presa dalla situazione com’era giusto che fosse, di quanto fosse strano il comportamento di quella guardia: se i guardiani odiavano così tanto gli umani, perché le lasciava la possibilità di spiegare?, perché la ascoltava? - Forse gli umani hanno fatto cose terribili. Ma anche noi ne abbiamo fatte- si sentiva ridicola nel comprendersi in quel gruppo di pazzi dagli strani poteri - Forse non tutti gli umani sono malvagi. Come non tutti i kriptes lo sono.
La guardia rimase in silenzio qualche istante, poi accennò ad un sorriso. Arlen si stupì non poco, accorgendosi di avergli fatto cambiare idea così velocemente. Ma, proprio mentre iniziava a congratularsi con sè stessa, quel sorriso prese una punta cupa, quasi storta.
- Forse avete ragione- acconsentì - Ciò non cambia che ora mi seguirete, volente o nolente.
“Non è una criminale” avrebbe voluto dire, ma stette zitta. Aveva purtroppo riconosciuto, dopo molti minuti, il nome e la voce, seppure roca e un poco cambiata da come la ricordava, di una sua compaesana, figlia di uno dei tre guaritori di Norvaa, nell’umana tenuta prigioniera.
Così, per non aggravare ulteriormente la situazione delicata della prigioniera con la sua testardaggine, si incamminò al seguito della guardia, ubbidendo all'ordine di indossare di nuovo il cappuccio, per poter essere scambiata per un comune kripte.
La ricondusse rapidamente fuori dalla prigione, oltre il Cortile delle Armi e su per l'immensa scalinata, a sinistra in un largo corridoio finemente intarsiato con motivi floreali, a destra in uno un poco secondario e di nuovo a sinistra in un'altro maggiore, fino a fermarsi di fronte ad una porta di legno chiaro, lavorata anch'essa.
-Non ritentate questa sera- l'avvisò a bassa voce, trattenendola proprio con la mano ormai sulla maniglia - Mio fratello sarà di guardia.
- Tenterò di nuovo domani, allora.
- Domani sorveglierò l'unico ingresso al Cortile.
- Dopodomani.
- È davvero un peccato, ma temo di essere di guardia alle prigioni, dopodomani. E il giorno dopo ancora ho ottenuto un turno doppio- poi, dopo essersi assicurato che nessuno li stesse ascoltando, aggiunse - Non so perché vi importi tanto di quell'essere, ma vi raccomando di ricordare la prudenza: non lasciatevela alle spalle solo per inseguire un inutile tentativo. Non vi aiuterò una seconda volta e di certo non lo faranno gli altri. Sarete sola, d'ora innanzi, ricordatevelo. Buona giornata- e senza aspettare risposta si congedò, dileguandosi di nuovo fra gli intricati corridoi del palazzo.
Il kripte aveva detto che sarebbe stata sola, da quel momento in poi, ma lei aveva davvero avuto qualcuno su cui contare, da quand'era arrivata in quel posto folle?

L'incanto di Neveri-DewinDove le storie prendono vita. Scoprilo ora