Se telefonando...

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O. osservava il sole calare dal balcone della sua cameretta, aveva sempre manifestato una sorta di ossessione per i tramonti: quella sfera gialla che si andava pian piano imporporando, quella palla di fuoco che scivolava verso il limite dell'orizzonte, tenendosi aggrappata alla volta celeste con le sue lunghe braccia aranciate, le sembrava un bambino caparbio, di quelli che pur di non dover andare a dormire, agguantava, combattendo contro il torpore ed il sonno, ogni possibile appiglio umano o inerte che fosse. E, come il bambino, persa la sua battaglia contro le braccia possenti di un padre che lo adagiava sul letto, incurante della sua volontà, scalciava, piangeva e singhiozzava; così il sole, una volta compreso che sarebbe stato inghiottito dalle tenebre, mollava la presa e si faceva trascinare nell'oblio lasciando, però, dietro di sé, una scia di lacrime che coloravano il cielo di tutte le sfumature possibili del rosso e dell' arancione.
Per O. ogni tramonto era una magia, ogni sera lei si accucciava sul balcone e aspettava che si alzasse il sipario su quello spettacolo della natura.

"Penso che mi abbiano concepita al tramonto: mentre il sole squarciava l'orizzonte coi sui ultimi raggi, mentre il cielo si tingeva di rosso, mentre sul mare si riflettevano lingue di fuoco e mentre le onde solleticavano i piedi dei miei genitori; ecco, in quel preciso istante si andava formando la mia prima cellula, l'ovotide che sarebbe poi diventato Ophelia..."

"O., hai fumato? So che il tramonto è la tua droga preferita, ma vacci piano!"

Ophelia sbuffò, nessuno poteva capire come un fenomeno così naturale e che, per giunta, accadeva tutti i giorni la facesse emozionare a tal punto da permettere alla sua corazza di allentarsi per qualche minuto.
Quindi, guardò l'amica e la vide intenta a premere irrefrenabilmente i polpastrelli sullo schermo del proprio cellulare, mostrava un'espressione concentrata, si notava da quei piccoli accenni di rughe che le solcavano la fronte: stava sicuramente messaggiando con Amedeo.

O. decise che era meglio lasciarla combattere da sola con la moderna versione delle lettere d'amore; così, chiamò il suo migliore amico che, suo malgrado, si trovava dall'altro capo del mondo per un progetto universitario.
Si chiamava Giulio, ma tutti lo chiamavano "GGG", il grande gigante gentile, perché era molto alto e, nonostante la sua figura potesse incutere timore, il suo viso emanava simpatia e le sue braccia lunghe erano sempre alla ricerca di abbracci e coccole.
A O. mancava averlo attorno, erano amici da una vita, avevano trascorso assieme le migliori disavventure: la scena di lui, ormai sotto l'influenza di Bacco, impegnato a lanciare fette di salame come fossero frecce affilate gridando "per Sparta", non le sarebbe mai uscita dalla mente.

"Ofi - solo a GGG era concesso chiamarla con il nomignolo che tanto detestava- che novità hai per me?"

"Come sarebbe a dire che novità ho io? Tu sei a Seattle, sei tu che dovresti raccontarmi tutto quello che accade nella gloriosa America!"

"Ofi, Ofi, Ofi, ti conosco, se mi hai chiamato, spendendo un capitale, proprio perché sono all'altro capo del mondo, ci deve essere sotto qualcosa"

"Odio quando capisci tutto al volo, lo sai?"

"Eh, che ci vuoi fare? Sono perfetto!" Rispose GGG, pavoneggiandosi allegramente.

Ophelia dall'altro capo del telefono rimaneva in silenzio, allora GGG la esortò gentilmente :"Terra chiama Ofi!!! Dai su, tell me what's going on..."

"Ti devo fare una domanda... Promettimi che mi risponderai sinceramente, ok?" Ribatté O. titubante.

Sentendo la sua voce farsi flebile e insicura al GGG venne in mente un' altra Ophelia... L'Ophelia di tanti anni fa...

Eravamo seduti al tavolo della mensa, l'Ophelia in questione era una piccola "marmocchietta" di circa otto anni, che stava osservando imbronciata un piatto colmo di uova strapazzate e cavolfiori che avrebbe dovuto mangiare. Il suo aspetto era dei più angelici: occhi blu, scuri e vispi, capelli biondi come il grano e espressione corrucciata tipica delle principesse viziate dei cartoni animati. Non le avevo mai rivolto la parola, dopotutto lei era una "femmina", anzi, la osservavo solo perché aspettavo con ansia che arrivasse la maestra a costringerla a ingurgitare tutto il cibo che c'era nel piatto, facendola piangere. Infatti, se una bambina fosse scoppiata in lacrime perché non voleva mangiare quella sottospecie di cibo della mensa, allora, tutti avremmo potuto lasciare da parte quello che non ci piaceva, per evitare che si venisse a creare un piagnisteo collettivo.
Ma, non avevo considerato che quella bambina era Ophelia, testarda, caparbia e allergica alle lacrime - badate bene: alle lacrime, non ai capricci! - fin da quando era in grado di intendere e di volere. Quindi, nel momento in cui la maestra la venne a sgridare, intimandole di non avanzare nulla, la voce di O. uscì flebile flebile, tanto simile a quella della telefonata odierna. La bambina, con la sua vocina titubante, tentava di spiegare che i cavolfiori puzzavano e che le uova erano acquose e mollicce, poi, in tono man mano più risoluto, si mise a dire "Non esiste che infili in bocca una cosa che puzza più della pupù della mia sorellina!"
Io stavo per scoppiare a ridere, la principessina era buffa, ma non aveva pianto, perciò avrei dovuto mangiare quegli orrendi cavolfiori.
In realtà, avevo ancora sottovalutato O., lei, con un sorriso angelico stampato sul viso e un'aureola che quasi le spuntava dal capo, aspettò che la maestra se ne andasse e posizionò un cavolfiore sul cucchiaio. Pensavo, ingenuamente, che avesse deciso di mangiarlo, invece, premette con decisione le sue dita sul manico del cucchiaio, utilizzandolo come catapulta; di lì a poco la mensa era piena di bambini che catapultavano qua e là pezzi di cibo poco gradito ai loro palati. Da allora cominciai a parlarle: avevo deciso che era una tosta.

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⏰ Ultimo aggiornamento: Apr 24, 2016 ⏰

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