FINE?

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"FINE" scrisse, tasto doloroso dopo tasto doloroso.

Come sempre.

Sapeva che quella parola sarebbe durata un istante nel suo cuore. Guardò lo schermo retroilluminato, le sue parole nero su bianco. A cosa valevano quelle due sillabe, se il resto non sarebbe mai stato sufficiente, come ogni volta?

Come sempre.

La piccola stanza in cui si trovava, quella in cui era cresciuto, lo insultava: aveva diciassette anni. Il quattordicenne che era stato lo avrebbe guardato con disprezzo.

Si sa che i quattordicenni sanno essere esigenti, sulla pelle degli altri.

È il prezzo che doveva pagare per l'immaturità che lo aveva giustamente caratterizzato.

Però erano passati tre anni.

Era cresciuto.

Perché la voce che richiedeva di essere ascoltata era quella storta e priva di spessore che aveva avuto, e non quella comprensiva che le ragazze trovavano profonda? Con la sua nuova voce era bravo.

Tanto che ricevette un messaggio, e afferrò il cellulare. Lesse: "Ti sarai svegliato come sempre prima, sei completamente pazzo. Però se ti va io potrei essere pronto prima del solito, potremmo fare colazione insieme vicino scuola. Che ne pensi, scrittore dei miei stivali?"

Sorrise, poi rispose soltanto: "Sì."

Tanto aveva finito.

Aveva finito, pensò, e il cuore gli si sgonfiò nel petto.

Anche se con le parole che pronunciava tutti i giorni era bravo: si era trovato un buon amico e Alice.

E la cosa non smetteva di sorprenderlo.

***

«Ah, è per questo che sei venuto qua con me, non avevi altro da scrivere» sottolineò Martin, con fare canzonatorio ma allegro.

«In realtà avrei un sacco di cose da scrivere ancora, un sacco di scalette pronte» specificò.

«Ok, allora ti sei salvato. Non so come tu faccia ad alzarti così presto pur andando a letto tardi.»

«Non è poi così tardi, e non è nemmeno così presto. E poi quando torno da scuola dormo un po'» disse Lewis, bevendo il suo cappuccino dalla tazza bianchissima.

«Ci mancherebbe» fece notare l'amico, per niente conciliante. «E dimmi un po'... l'hai portato?» chiese, guardandolo con genuina curiosità.

Lewis ci mise un po' a rispondere, preso alla sprovvista. «Ma tu non leggi, non l'ho portato a te... Però se vuoi te ne stampo una copia nel pomeriggio. Te la porto domani, che dici?» cercò di rimediare, ma sapeva che era inutile, il danno era fatto. Però era davvero colpa sua?

«Immagino che la copia che hai stampato sia di proprietà di Alice» specificò Martin, infastidito.

«Be', lei legge normalmente. Non pensavo... tu di solito non vuoi...»

Martin sorrise, stringendosi nelle spalle. «Hai ragione, non potevi aspettarti che volessi leggerlo. È che ne parli da mesi, quindi in qualche modo mi sembra di volerlo conoscere.»

«Così però sembra una persona, sembra che io abbia partorito» disse lui, ridendo.

«Non è come se fosse così?» La domanda era seria, lo sguardo dell'amico dubbioso.

«Be', sì... e no. Io vorrei non provare questo, per mio figlio.» Non riuscì a dire altro.

A Martin non bastò. Lo guardava ormai corrucciato, attendendo una risposta.

«Sono arrabbiato. Io... mio padre dice che non è niente di che» continuò, passandosi una mano sulla faccia, pallida come quella di chi non esce mai.

«Lo ha già letto?» Sopracciglia sollevate.

«Lo ha letto man mano che lo scrivevo. Voleva darmi dei suggerimenti, ma non è... mamma.» Scosse la testa. «Non è colpa sua. È che fa schifo quello che scrivo, e non si può sembrare gentili mentre si dice una cosa del genere. E lui è costretto a dirmi questo spesso.»

«Costretto? E... tua madre? Lui scrive per mestiere, è vero, ma tua madre per mestiere aiuta gli scrittori a migliorare i loro testi, suggerisce agli editori quali pubblicare. È lei il boss finale, non lui. E sa anche come dire queste cose senza farti a pezzettini.»

Non faceva una piega. Sospirò. «Però vorrei che...»

«Vorresti che fosse lui a farti i complimenti. Quello spietato, severo, che non accetta gli errori. Varrebbe di più se lui ti dicesse che quello che scrivi va bene.»

Lewis mandò indietro la schiena, raddrizzandosi. «Sarebbe già molto se dicesse che è decente.»

Martin addentò il proprio cornetto, con lo sguardo rassegnato e lo stomaco ancora vuoto. Per poco. Sapeva che solo Alice avrebbe potuto farcela, e ormai provava a sollevarlo e a suggerirgli soluzioni più per abitudine che per la convinzione che potesse servire davvero a qualcosa.

Alice sarebbe stata sempre la chiave per la serratura del cuore di Lewis.

Ed era assurdo, considerando i nomi di entrambi.

Però era così, e non c'era niente da fare.

Oppure era lui l'amico incapace di sostenere. Quello con cui si poteva scherzare e basta.

Anche per questo avrebbe voluto leggere il suo testo. Lewis aveva ragione: non leggeva mai. A casa sua non c'erano che i libri di scuola e quelli di cucina, ma forse se fosse nato in una casa come quella dell'amico le cose sarebbero state diverse anche per lui.

Forse avrebbe potuto avere quello che possedeva Lewis: una passione vera.

Qualcosa per cui rimanere svegli.

Per cui impegnarsi.

Invece lui non aveva niente. E a nessuno sembrava importare.

Ispirazione, La città degli scrittoriDove le storie prendono vita. Scoprilo ora