Capitolo 3: Atlas

108 7 3
                                    

Una voce profonda mi squarciava la mente. «Qual è il tuo nome?»

Non vi fu risposta, quindi la voce ripeté: «Ho bisogno di sapere il tuo nome.»

Mi risvegliai lentamente. Ero distesa su un lettino, circondata da sagome sfocate. L'aria era densa, e il mio cuore batteva in modo irregolare. «Il mio nome è... Emily» balbettai, la voce tremante e soffocata da un nodo alla gola.

«Mi confermi che hai dodici anni?» continuò la voce, come un'eco che si insinuava nei recessi della mia mente.

«Ho dodici anni» confermai, cercando di mettere a fuoco i volti intorno a me. Sentii il rumore di una penna che scorreva sulla carta, veloce e decisa. Un brivido mi percorse la schiena.

«Dove ti trovi?» chiese la voce.

«Sono allo studio del Dott. Smith» risposi, riconoscendo l'odore aspro del disinfettante che sembrava bruciare nelle narici. Il luogo si allungava e si contraeva ai miei occhi, come se oscillasse in un mare invisibile.

Una voce femminile esclamò soddisfatta in sottofondo: «Molto bene.» Sembrava la voce di mia madre. La familiarità mi confortò per un istante, poi l'incertezza tornò come un'onda gelida.

Ci fu un momento di silenzio, e in seguito il rumore di pagine che venivano sfogliate interruppe l'attesa. La stanza sembrava trattenere il respiro.

«Chi è Rigel?» mi chiese nuovamente quella voce, con una nota di severità.

«Rigel è un mio amico» risposi prontamente. Un lampo di emozione mi colpì al cuore, e per un attimo mi parve di vederlo, il suo sguardo azzurro, il sorriso spezzato.

Ci fu un attimo di silenzio, poi qualcuno sospirò forte, seguito da uno sbuffo di esasperazione.

«Il loro legame è ancora troppo forte, Australis» disse la stessa voce profonda che mi interrogava, e ora sentivo il peso del giudizio in quelle parole.

«Non è possibile» rispose la voce della donna. «Sono passati anni. Cancella tutto, Atlas.»

«Non funziona così, lo sai bene. Posso solo sopprimere i suoi ricordi, non eliminarli. Prima o poi lei ricorderà» rispose Atlas, con un tono che oscillava tra rassegnazione e sfida.

«Fallo e basta, Atlas» La voce di mio padre risuonò nella stanza, ferma e inconfondibile. Un'ombra di dolore mi colpì al petto al sentirlo. «Non ci sarà un'altra Katherine.»

Qualcuno, un istante dopo, mi afferrò entrambe le mani con forza. Il contatto bruciante mandò un'ondata di calore alla fronte, e la testa mi divenne sempre più pesante, come se fosse sul punto di esplodere. Quella voce mi sussurrò qualcosa all'orecchio, parole che ben presto divennero un'eco assordante nella mia mente.

«Memoriae tuae obscurentur. Abyssus te capiat. Memoriam tuam sopiam. Memoriae tuae in tenebris mergantur. Obliviscere quae scis.» (Che i tuoi ricordi si oscurino. Che l'Abisso li prenda. Sopprimi la tua memoria. Che i tuoi ricordi si immergano nelle tenebre. Dimentica ciò che sai.)

La frase risuonava dentro di me, martellante e insistente. Con le mani tremanti, annuii e ripetei fluentemente, come se fosse una seconda natura.

Che i miei ricordi si oscurino. Che l'Abisso li prenda. Sopprimerò la mia memoria. Che i miei ricordi si immergano nelle tenebre. Dimenticherò ciò che so.

Le parole rimbombarono nella mia mente, diventando sempre più forti, finché tutto divenne un caos di voci e bisbigli. Poi, l'oscurità calò come un sipario e, all'improvviso, una luce accecante mi colpì.

Mi ritrovai sul lettino dello studio del Dott. Smith, il cuore che martellava contro il petto, circondata dai volti preoccupati dei miei genitori.

«È sveglia e vigile» disse quest'ultimo con un sorriso rassicurante, mentre mi passava la mano sulla fronte.

Nunki: La Stella PerdutaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora