I. Mancanza

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Il tempo passa veloce, nonostante sia solo, nonostante stia soffrendo. Sembra che nulla possa arrestarne l'impietoso incedere. Di questo passo, amico mio, ti raggiungerò presto. Troppo presto.

Che senso ha la vita se sopraggiungerà la morte? Che senso ha essere figlio di una dea se sono condannato a divenire polvere come qualunque mortale? Perfino tu non hai potuto nulla, tu che parevi l'invincibile lancia degli dèi. L'arma che mi scagliarono contro per distruggermi.
Sì, ricordo ancora quel giorno. Il cuore brucia ogni battito al solo pensiero. Eravamo giovani e sciocchi e, devo ammetterlo, soprattutto io ero un vero idiota. Già, un idiota dal capo ingioiellato.

Come sono cambiate le cose senza di te: adesso trascorro spesso le giornate ascoltando - o almeno fingendo di ascoltare - gli inutili problemi della plebaglia.
Una volta non c'era verso di convincermi, non accettavo mai di prendermi queste responsabilità e lasciavo sempre qualche intendente al mio posto.

Ci sono momenti in cui perfino tu stenteresti a riconoscermi: del mio antico coraggio non rimane traccia. Tremo di fronte alle ombre che mi seguono nei vuoti corridoi del palazzo di Uruk. Le sento nascondere la loro presenza nelle crepe dei mosaici azzurro e porpora e sussulto a ogni gelido anelo che mi svegliava la notte.

Le tenebre invocano il mio nome, finché non mi percepiscono perdere il senno di fronte alla più oscura delle verità, ma non servono loro, ogni giorno, ogni specchio del palazzo me la mostra: le sabbie scorrono, e lasciano copiose i loro segni sul mio volto.

Ogni nuovo solco mi avvicinava senza fallo al sonno eterno, sempre di più, sempre di più... Ma adesso, non posso più sopportarlo.

***

Gli occhi bruciano. A ogni battito, minacciano di non riaprirsi più.

Lancio un'occhiata alla finestra, la luce del sole è rossa come il sangue. Enkidu direbbe che è un cattivo presagio, tuttavia, ora mi basta significhi che la giornata è finita. Non vedo l'ora di andarmene da questa cazzo di Ziggurat.

Ma non bastano questi vecchi impomatati? Che se ne fanno di me?

«Basta così, per oggi» esordisco. La mia voce rimbomba fra le colonne della stanza delle udienze semivuota. Un uomo dagli abiti logori spalanca la bocca in una smorfia disperata. Adesso è la voce di mio fratello a risuonarmi nella testa. "Dobbiamo essere grati alla natura, e ancor di più agli uomini tanto nobili da prendersene cura. Senza di loro, non avremmo nemmeno di che nutrirci, altro che banchetti." Sapevi di cosa parlavi, avevi vissuto la fame sulla tua pelle, tu.

Accenno all'uomo con il mento. «Tu, contadino, sei l'ultimo?»

«Oh, Dèi!» Si lancia faccia a terra continuando a farfugliare qualche preghiera.

«Rispondimi. Non ho tempo da perdere.»

«S-s-sì, mio Re.»

«Bene. Avvicinati, dunque. Parla.»

Alza la testa confuso. «Ma avevate detto...»

«So cosa ho detto. E so anche cos'ho detto ora. Sbrigati, prima che cambi idea.»

«E-ecco, vedete...»

Mi sistemo meglio sullo scranno sbuffando. La mia fama dev'essere troppo da sopportare per questo misero essere umano. «Smetti di balbettare, non ho intenzione di mangiarti... per ora. Potrei cambiare idea, se consumassi la mia pazienza.»

Gilgamesh - Human BeingDove le storie prendono vita. Scoprilo ora