Capitolo 2: Aurora

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Maledetta la pioggia! Esci una volta senza ombrello ed ecco che il cielo si riempie di nuvole e poi una goccia ti bagna i capelli appena lavati. Finché è una non te la prendi, ma poi ne cade una seconda e subito dopo una terza e lì sai che ti spazientirai. Dopo neanche dieci minuti dalla mia uscita dal portone del mio appartamento sono già bagnato fradicio. Ed io che dovevo solo comprare un filone di pane per la cena di questa sera... E adesso, invece, corro come un matto per le strade in cerca di un riparo, mentre scoordinato provo a sfilarmi il mio vecchio cappotto per coprirmi la testa, cercando di conservare qualcosa di asciutto. Mi rassegno, tanto sono già bagnato come un pulcino, e alla fine mi dirigo alla fermata dell'autobus. Ovviamente non c'è neanche una panchina o un tettuccio sotto il quale scampare alla pioggia. L'autobus ovviamente in ritardo, come concerne a qualsiasi città universitaria. Le macchine sfrecciano tra le pozzanghere createsi nelle insenature dell'asfalto consumato. Mi schizzano noncuranti, accecandomi con gli aloni dei fanali. Finisco per maledire me e la mia maledetta idea di regalarmi quel filone appena sfornato per la mia misera cena da universitario fuori sede. Sconfortato dalle mie pessime decisioni, butto a terra le braccia e con loro il mio cappotto fradicio e alzo la testa cielo e con gli occhi chiusi mi arrendo alle gocce insistenti sul mio viso. Rimango in quella posizione per qualche instante, immobile come se fossi di marmo. Calo poi dopo la mia testa sulla spalla sinistra, mentre con il mio braccio destro mi massaggio il collo, come mia usuale ricorrenza ai disagi della vita, ma nel fare ciò noto, socchiudendo gli occhi, che qualcuno silenziosamente ha assistito al mio arrendermi all'acqua. Non mi ero accorto che, ancora prima del mio arrivo, un ombrellino di un rosso acceso se ne stava lì a qualche metro di distanza da me.

Una ragazza mi guarda incuriosita e divertita sotto la sua cupola scarlatta. È divertita, lo si vede dal sorrisetto che prova a nascondere, ma anche incuriosita da questo essere lungo e smilzo che si lascia bagnare non curante da un'incessante pioggia. Ha due occhi piccoli, chiusi a fessura, eppure inspiegabilmente sembrano ai miei più abbaglianti di tutti i fanali che sfrecciano davanti a me. Mi continua a sorridere e io, contagiato, sorrido a mia volta, fino a finire entrambi in una fragorosa risata. Dopo aver ripreso fiato, lei gentile mi fa cenno di affiancarmi accanto a lei sotto il suo ombrello color papavero.

"Ciao."

"Ciao."

"Piove a dirotto vero?" mi dice.

"Già." rispondo, guardando il mio gocciolare.

"Aspetti l'autobus?" mi chiede, come se il fatto che fossi davanti alla fermata del 28, non fosse già un'implicita risposta.

"Si, devo prendere il pane." dico senza tanti problemi.

"Il pane?" ripete.

"Il pane." ripeto.

"Come mai il pane?"

"Volevo per una sera concedermi una cenetta ben cucinata, invece che le solite mangiate sbrigative, tipiche del classico fuori sede."

"Anche tu universitario? Cosa studi?"

"Filosofia. Secondo anno. Mi piacerebbe insegnarla un giorno. Tu, invece?"

"Infermieristica. Primo anno."

"Bello." non so che altro dire.

Si apre un imbarazzante silenzio, tra noi due studenti sconosciuti sotto uno stesso ombrello. Lei adesso guarda davanti a sé, verso quell'interrotto via vai di macchine, sporgendosi ogni tanto nella speranza di scorgere da un momento all'altro l'autobus, di cui era in attesa. Io, invece, non posso fare altro che guardarla: i suoi occhi proiettano le luci dei fanali che osserva, un vero e proprio chiaroscuro, se si osserva come convivono in quell'iride il caldo nero dei suoi occhi e quegli aloni bianchi riflessi in essa; i capelli scuri cadono sciolti sulle spalle, forse mossi di loro o scompigliati un po' dal vento e un po' dall'umidità; le labbra rosee e sottili, non so come quasi sempre socchiuse.

"Grazie... sai... per l'ombrello..." dico, indicando con gli occhi il nostro cielo artificiale.

"Figurati."

"Non è da tutti sai?"

"Cosa?" mi chiede.

"Aiutare..." rispondo, guardandola negli occhi.

"Veramente non è niente di che." arrossisce, cercando di nascondere il volto.

"Non volevo imbarazzarti."

"Tranquillo. È che non sono abituata ai complimenti." dice, ridendo.

"Davvero?"

"Davvero."

"Anche tu fuori sede?" chiedo curioso.

"No, abito qui vicino." mi risponde.

"Come mai hai scelto infermieristica se posso chiedere?"

"Be' come hai già notato mi piace aiutare, ma aiutare concretamente. Ho sempre pensato che ad un problema possa corrispondere una soluzione tangibile e visibile. Forse per questo sono sempre stata portata nelle materie scientifiche." dice, sorridendo.

Non so cosa sia, ma sento che potrei parlare così per ore. Altre domande, altre risposte, a raffica senza una fine. La sua voce era gentile e pacata, con un calore tutto suo all'interno. Non sono mai stato molto loquace, soprattutto con persone a me sconosciute. Eppure, eccomi qui a parlare con una ragazza mai vista prima, sotto in temporale che non sembra di voler smettere. Ha in sé un potere rasserenante, quasi familiare. Non percepisco più il freddo tepore della pioggia e l'accompagnamento del vento. Tutto si è rasserenato, come se dalle nuvole, fosse rinato un nuovo sole. Come se fosse passata già la sera e io digiuno del mio pasto serale e senza pane caldo, assistessi ad una novella alba che si desta. Era da molto che non risentivo questa piacevole sensazione.

Vedo fermarsi un autobus, non è il mio 28, ma il suo 19.

"Devo andare." mi dice.

"Va bene..." Le Dico.

"È stata una bella chiacchierata"

"Anche per me"

Mi sorride e mi lascia nella mano il suo ombrello, per poi correre verso le porte aperte del suo autobus.

"Ma è tuo!" le grido.

"Tienilo!"

"Grazie!"

"Figurati!"

Non so perché, ma in me si spinge una forza rattristante. So che dopo che quelle porte scorrevoli si chiuderanno molto probabilmente non rivedrò più davanti a me quel nuovo sole, capace di spezzare i nuvoloni sopra la nostra testa. Per cui mi avvicino all'autobus.

"Dimmi almeno come ti chiami!" le urlo per l'ultima volta

Non se lo aspettava, glielo leggevo negli occhi. Sorrise, altro non poteva fare per quel povero scemo a cui aveva dato il suo riparo dalla pioggia. Anche lei si sporge un po' verso di me. Le porte dell'autobus si chiudono e faccio in tempo a sentire...

"Aurora... mi chiamo Aurora..."

Writober  2023Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora