ADRENALINA

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La mia faccia si scontrò con il pavimento, a pochi centimetri dalle gambe di una sedia di metallo.

La stanza era in un sotterraneo. Faceva freddo e c'era odore di muffa. Era vuota, l'uomo doveva essere convinto di essere sicuro da solo con me. E forse lo era. Mi sentivo paralizzata, nemmeno sotto le bombe ero stata così.

«Alzati» ordinò lui e diede un calcio alla suola del mio stivale. Ero rimasta carponi a terra. Nemmeno me n'ero resa conto.

Mi alzai. La sua mano mi spinse verso la sedia. Mi voltai verso di lui e un'altra spinta mi fece sedere.

«Molto bene.» La sua voce era diventata più amichevole. «Se sarai docile per tutto il tempo, potrai uscire di qui senza un graffio.»

Docile? Docile come un cane?

«Fai almeno un cenno con la testa, sto per caso parlando da solo?» Il tono era tornato quello di prima.

Mi limitai a deglutire quel poco di saliva rimasta in bocca.

La sua mano emerse dall'ombra del neon alla sua sinistra e si schiantò contro la mia guancia. La sedia barcollò. Dalla mia bocca uscì un lamento strozzato, ma subito tornai a guardarlo.

«Rispondi» mormorò il soldato. «Sarai docile?»

«Vaffanculo» glielo sputai in faccia con soddisfazione, ma pronta ad affrontare la sua reazione.

Che non arrivò.

Il suo volto era inespressivo, per metà in ombra. Abbassò la testa e fece qualche passo nella stanza. Il suo respiro era regolare e i suoi movimenti lenti.

Il freddo della sedia penetrava i miei vestiti.

L'uomo batté un pugno contro la porta e subito due soldati entrarono. Fece cenno verso di me e loro si avvicinarono.

Uno si mise dietro alla sedia, mi afferrò le braccia e le piegò all'indietro, l'altro si occupò delle mie gambe che già erano scattate in avanti. I muscoli si irrigidirono, il mio cervello era convinto di potermi liberare.

L'uomo si avvicinò. Ancora non sapevo il suo nome, cosa volesse da me, ma l'istinto mi diceva che dovevo temerlo.

Fece l'ultimo passo e mi sovrastò. Tenevo lo sguardo incollato al suo, come se così potessi avere anche solo in parte il controllo della situazione. Si abbassò fino ad avere il viso al livello del mio. Senza espressione, analizzò ogni centimetro del mio volto. Si stava chiedendo da dove potesse partire?

«Parlerai.»

Quella semplice parola, pronunciata con tanta autorità e convinzione, penetrò nella mia mente come una promessa che dovevo mantenere.

Una parte di me si rivoltò contro quella affermazione, io non avrei mai parlato! Ma l'altra parte, quella viscerale, quella che la mia logica non poteva controllare, si stava rannicchiando in un angolo buio in attesa che tutto finisse. Ero una codarda e non potevo credere di pensare una cosa del genere di me.

Lui sembrò leggermi nel pensiero e un ghigno gli gonfiò la guancia.

«Molto bene.» Sigillò così quel momento e tornò dritto. «Che cosa avete trovato nel bunker, tu e i tuoi?»

Scossi la testa. «Niente.» Era la verità e non potevo dimostrarlo.

I suoi occhi si strinsero per un istante. «Che cosa avete trovato nel bunker?»

«Bombe che hanno ammazzato due dei nostri.» Il ricordo mi afferrò alla gola.

«E voi due rimasti? Tu e Riley?»

Sapeva anche il suo nome. Ovvio. «Non abbiamo trovato niente.»

«Ma stavate cercando qualcosa, vero?»

I miei muscoli si tesero di nuovo e la presa dei due soldati si fece più intensa.

Mi allungai verso di lui il più possibile, una vampata di calore mi attraversò il corpo. Forse l'adrenalina aveva deciso di aiutarmi? O era stato il cognome di Simon a scatenare qualcosa? «Sì, stavamo cercando la tua testa di cazzo.» La mia voce uscì ferma e quasi mi stupii di me stessa.

Lui rise a bocca chiusa. Sembrava aver ascoltato una barzelletta.

«Non ti dirò niente.» La mia parte razionale era entrata in azione. Strano. Credevo che sarebbe stato l'istinto a tirarmi fuori di lì.

«Ti sbagli. Ho detto che parlerai. E parlerai.» Caricò un pugno e la sua mano sprofondò nel mio stomaco.

Il dolore mi bruciò fino alla gola e alla schiena. Mi piegai in avanti, solo la presa degli altri due mi impedì di accasciarmi a terra.

Ne avevo presi, di pugni. Simon si era messo in testa di allenarmi per il corpo a corpo, mesi prima, ma non era abbastanza. Non per quell'uomo.

Il respiro accelerò.

L'uomo mi alzò il mento e mi fissò per qualche secondo. Aspettavo il prossimo colpo.

«Cosa stavate cercando?»

«Tu lo sai già, perché me lo chiedi?» La mia voce sembrava quella di un'altra persona, come se io fossi stata in un angolo della stanza a osservare la scena.

Il pugno arrivò al naso. Una scossa mi percorse il volto, urlai. Il dolore mi mozzò il respiro, un fiotto di sangue mi colò caldo in gola e nella bocca e un conato di vomito mi contrasse lo stomaco.

Aumentò sempre di più. L'uomo mi sollevò di nuovo la testa e mi guardò con un inquietante sorriso. Sembrava un padre preoccupato per la figlia. Un brivido mi increspò la pelle.

«Ha fatto male, vero?» chiese in tono dolce. «Non capiterà più. Vero?» Il tono si abbassò con l'ultima parola.

Una nuova vampata bollente si alzò nel mio corpo come un'onda. Adrenalina. Rabbia. Raccolsi la saliva e il sangue che si erano accumulati nella bocca e glieli sputai in faccia. Un rivolo mi colò lungo il mento e il collo.

Lui si abbassò di nuovo per guardarmi e si leccò le labbra. Un sorriso gliele incurvò. Aveva i denti sporchi del mio sangue.

«L'avrei comunque assaggiato. Prima o poi.»

MURIDove le storie prendono vita. Scoprilo ora