1 - Redemption

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Mentre la canna della pistola mi viene puntata dritta sulla fronte imperlata di sudore, alzo lo sguardo verso il mio aggressore.
Tutto quello che posso vedere di lui sono il suo abbigliamento -una felpa grigiastra e dei pantaloni neri- e pochi tratti del suo viso -dato il cappuccio alzato sulla sua testa- tra cui parte del suo mento e la bocca piegata in un sorrisetto beffardo. La mano con cui tiene l'arma è immobile, con tagli sul dorso e le unghie assai trascurate.
Respiro a fatica, con il sangue che mi cola lento dal naso contemporaneamente alle lacrime.
Ho tentato di resistere più che potevo, di combattere con tutte le forze che mi rimanevano in corpo, ma niente è servito.
Sono troppo vecchio.
Rassegnato, deglutisco mentre ripenso a tutto quello che ho fatto nel corso della mia vita.
Di errori ne ho fatti, e tanti anche! Proprio per questo motivo, ho tanti nemici.
E lui credo fortemente sia uno di questi.
Mi tira un calcio, mentre sputa parole più acide dell'acido stesso, costringendomi a stendere me e il mio povero corpo dolente a bordo piscina.
Sento solo uno sparo e tutto alla vista mi diviene sfocato; i suoni mi arrivano ovattati, lontani: una breve risata e il rumore di qualcosa di pesante che viene buttato in acqua.
Non appena riacquisisco la vista, noto che sono proprio io a trovarmi sul fondo della piscina. Non riesco a muovere alcuna parte del corpo, neanche gli occhi per spostare lo sguardo dalla luce del sole che mi abbaglia.
Lo trovo accecante come mai prima d'ora.
Dopo pochi secondi di puro silenzio, inizio a sentire voci e vedere strane ombre. Pian piano, queste diventano sagome ben nitide:
Un bambino che corre sorridente, con sua madre alle spalle che tenta di prenderlo. Ad ogni passo che il giovane fa, tutto attorno a me cambia fino a diventare una vera e propria pineta in estate, con tanto di canto di cicale, uccelli che cinguettano e lucertole che corrono nelle loro tane. Seguo il bambino scansare tronchi e rami, poi cade, sbucciandosi il ginocchio; si mette a piangere e la madre, per calmarlo, lo coccola e gli asciuga le lacrime con le delicate e curate mani.
Avverto una stretta al cuore.
Quel bambino poteva avere all'incirca sette anni e ricordo che anche io all'età di sette anni feci una caduta che non potei più scordare, non tanto perché mi graffiai tutto il ginocchio bensì per quello che accadde dopo: Ricordo che dopo poco arrivò mio padre, come al solito ubriaco fradicio, a rovinare quel momento meraviglioso anche se doloroso. Urlò il nome di mia madre, Rita, per aiutarlo a fare non ricordo bene cosa e lei, sospirando, mi lasciò giocare con le pietruzze, i rametti e le foglioline secche mentre lo portava il più lontano possibile da me. Ebbi il tempo di formare delle piccole figure con quei ciottoli, poi iniziò l'inferno.
Sentii delle urla seguite dal rumore di una bottiglia di vetro che si frantumava in mille pezzettini.
Ricordo ancora la mia preoccupazione, la mia paura.
Mi alzai e corsi nella direzione del suono, che, casualmente, era la stessa presa dai miei genitori.
Mi sembra ancora di risentire il cuore che palpitava come non mai, i polmoni e i muscoli delle gambe che bruciavano come se stessi correndo una maratona. Le cicale e gli uccellini avevano smesso di cantare, al loro posto si potevano udire solo i singhiozzi di mio padre chino sul corpo di mia madre, sanguinante e contornato da appuntiti frammenti di vetro.
Quando lui mi rivolse il suo sguardo, dispiaciuto e impaurito, non ci pensai due volte dallo scappare il più lontano possibile da lui.
Mi rifugiai tra le radici di un grande pino fino a quando non si fece buio e mio nonno non venne a prendermi.
Mi crebbe come un figlio, mentre del mio vero padre non ne seppi più nulla. Probabilmente, finì in prigione per omicidio colposo e chissà per quali altri delitti aveva compiuto in quello stato di ebbrezza.

Chi più di me sa quali follie si possono compiere dopo aver bevuto più di due bottiglie di alcol?

Osservo ancora una volta le sagome della donna e del bambino abbracciati nella pineta.
Sì, quel bambino sono io.
Una volta realizzato questo, la scena scompare e, attirato da alcuni rumori provenienti da sinistra, volgo il capo dalla parte opposta:
L'ombra di una giovane donna che fa dondolare una culla in legno contornata con nastri rosa fa la sua comparsa pian piano.
Canticchia una rilassante melodia per far addormentare la bambina stesa nel piccolo lettino, coperta da candide e morbide lenzuola.
A lungo andare, ascoltando quella voce e riuscendo a mettere a fuoco il suo volto, la riconosco.
È Carla. La mia prima moglie.
Ci sposammo giovani e lei diede subito alla luce una bellissima bambina. Dal momento che entrambi amavamo la letteratura classica, decidemmo di chiamarla Livia, come il famoso poeta latino Livio.
Era una delle uniche cose di cui andavo -e tuttora ne vado- fiero.
Quanto desidero rivederla!
Bella, educata e con una fantasia grande quanto il suo cuore d'oro. La amavo tantissimo, la mia bambina.
Per i primi dieci anni della sua vita riuscii a darle l'infanzia più serena e gioiosa che nessun altro bambino aveva mai avuto fino a quel momento, benché avessi già tanti debiti addosso e abitassimo in un quartiere abbastanza ambiguo.
Purtroppo, però, la serenità della nostra famiglia durò poco; a causa mia, del mio egoismo e della mia gelosia.
Dopo l'undicesimo compleanno di Livia, Carla mi lasciò e tornò a stare dai suoi genitori. Mi disse che non voleva che nostra figlia continuasse a crescere in quel quartiere. Voleva darle una casa migliore, un vicinato migliore e degli esempi migliori di quelli che vedeva ogni giorno fuori dalla finestra.
Io, nella disperazione, iniziai a bere e a vagare barcollante per la città.
Senza neanche rendermene conto, mi ero trasformato in mio padre.
Una notte, però, mi ritrovai a passeggio nel quartiere dove abitava la mia ex moglie e non potei fare a meno di avvicinarmi alla porta e di buttarci contro una delle bottiglie di vetro che avevo nelle mani.
I vetri si sparsero sull'erba come si erano sparsi nel pavimento i frammenti del mio cuore.
Attesi qualche minuto e, sentendo la serratura scattare, presi la mira. Appena l'entrata si aprì, lanciai.
Solo dopo compiuto il gesto, mi resi conto che ad aprire non era stata mia moglie, come in parte volevo accadesse, ma Livia. La mia piccola Livia!
Il suo corpicino cadde a terra con un tonfo, il sangue che le sgorgava dalla testa.
Sentivo i vicini urlare frasi come: "Aiuto! Aiuto!" Oppure "Chiamate l'ambulanza! La polizia!" o "Qualcuno tolga quello scellerato da quella porta!"

Per un attimo sperai che quella piccola bottiglia in vetro non le avesse potuto far nulla. Non era vero.
Il giorno dopo ci fu il funerale e io non potei neanche dirle "addio": ero finito ai domiciliari e solo i miei amici del bar -quei pochi che avevo- venivano a farmi visita per assicurarsi che avessi tutto quello che mi serviva in casa.
Da quello stato di depressione ne uscii solo grazie alla mia seconda moglie, la ricca e saggia Eva. Era milanese e quando la conobbi -in un bar- fu un vero e proprio colpo di fulmine.
Da quel momento in poi, tutto andò per il verso giusto: mi liberai del vino, di quello schifo di casa e andai a vivere in una villa al nord con tanto di piscina e giardino.

Avevo cambiato vita, sì; ma non avevo estinto del tutto i debiti.
Infatti, mi erano rimasti da pagare i peggiori uomini d'Italia e uno di quelli era proprio colui che si era presentato a casa mia quest'oggi; mi aveva menato, sparato e, infine gettato nella piscina.

Quanto vorrei tornare indietro.
Quanto vorrei avere una seconda possibilità.
Quanto vorrei che mi perdonasse...

D'un tratto, un'ombra copre quell'intensa luce, tira fuori un paio di filamenti -che man mano che si avvicinano mi sembrano braccia- e mi afferra per la vita, riportandomi a galla per poi trascinarmi sull'asciutto.
Cerco di focalizzare meglio quella creatura e ancora non credo ai miei occhi...
Livia, la mia bambina adorata mi è davanti mentre mi accarezza la fronte, scostandomi i capelli. Sorride; i suoi denti sono bianchissimi, come bianco è il vestito che indossa.
Le getto le braccia al collo per abbracciarla e scoppio a piangere. Lei, con mia grande sorpresa, ricambia.
I miei più intimi sospetti -che non vi erano stati narrati- era corretti: sapevo di esser morto e sapevo di essere stato un cattivo padre, un cattivo marito e uno schifo di persona.
Sciogliendo il nostro abbraccio, chiedo a mia figlia:«Tesoro mio, cosa ci faccio io qui? Non dovrei essere con le altre persone malvagie?» mi veniva naturale utilizzare quel linguaggio con lei.
«Papà» mi chiama lei ridacchiando «Dio ti ha perdonato. Dio perdona tutti per un opera di misericordia» dichiara «Lo dice anche Alessandro Manzoni.» conclude ricominciando a stringermi forte, forte con quelle sue piccole e forti braccia.
«Come fai a sapere chi è Manzoni, figlia mia?» le domando stupefatto mentre le i castani e lisci capelli.
«L'ho incontrato.» risponde.
Mi siedo con le gambe penzoloni sul bordo piscina. Riesco a scrutare il mio corpo esanime sul fondo, con il sangue che si diffonde a macchia d'olio.
«Quale "Opera di misericordia" avrei compiuto, bambina mia? Lo sai?»
Lei annuisce, immerge l'indice nell'acqua e l'immagine di un fanciullo dai capelli ricci e biondi e con uno zaino rosso a forma di tartaruga mi compare davanti agli occhi.

Ora ricordo!

Qualche anno fa, quel ragazzino era fermo sull'asfalto e piangeva. Fortunatamente, a quell'ora non passavano tante auto in quella zona, così posai immediatamente le buste della spesa e mi gettai verso di lui, prendendolo in braccio e portandolo al sicuro sul marciapiede. Mi disse che aveva perso la sua maestra durante una gita scolastica e a quanto pareva l'aveva assalito il panico. Andammo alla stazione di polizia per far chiamare la madre, che si precipitò per venirselo a riprendere.
Era proprio bello aiutare.

L'immagine del bambino cambia e ne compaiono tanti altri, maschi e femmine. Li conoscevo tutti.
Da quel giorno volli fare qualcosa per aiutare il prossimo e, grazie a Don Massimo, il sacerdote della Chiesa che frequentavamo io ed Eva ogni domenica, divenni catechista per aiutare i giovani a capire passo dopo passo la strada che porta a Dio e che tutti attraversiamo.
Guardo la mia bambina togliere l'indice dall'acqua e le mie mani sfiorano il suo dolce viso.
«Perché tu mi hai perdonato?» le chiedo
«Perché tutte le brave persone perdonano.» dice, poi si volta verso l'uomo in nero che mi aveva ucciso.
È ancora lì e guarda il fondo della piscina come un bambino che cerca i pesci nell'acqua del mare. Si è abbassato il cappuccio e riconosco bene la sua testa rasata e il viso pieno zeppo di lividi e altri segni vari.
«Dovresti fare lo stesso con lui, papà.» dichiara Livia, indicandolo.
Lo guardo, prendo un bel respiro e mi convinco che è la cosa migliore da fare. Lentamente e dolcemente, pronuncio le parole "Ti perdono", che risuonano come un eco.

Lui sembra averle sentite!
Si gira e rigira spaventato, urla e corre via saltando la staccionata e rischiando addirittura di cadere.
La mia piccola ride alla vista di quella scena, poi annuncia:«Ora possiamo andare, papà.»
Mi prende per mano.
«Sì.» le dico, baciandole la fronte; poi ci incamminiamo per una nuova e serena vita, in paradiso.

God's Love For All - Per Chi Ama Ogni GiornoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora