Capitolo IV - L'arresto

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Sto morendo. La lama del pugnale mi ha trafitto il cuore. Il mio corpo è disteso in una pozza di sangue che si espande senza fermarsi. I miei occhi sono vitrei. Il signor Jackson brandisce ancora il pugnale mentre mi guarda morire lentamente.

Perché lo ha fatto? Ero soltanto andata a casa sua per parlargli. Non volevo denunciarlo, non volevo fargli alcuna domanda. Eppure, senza un attimo di esitazione, ha afferrato il pugnale dal bancone della cucina e mi ha colpita. Non ho avuto neanche il tempo di salutarlo.

Mi sveglio di soprassalto, nel cuore della notte. Mi guardo intorno. Mi trovo ancora nel buio pesto della mia stanza. L'unica fonte di luce sono i fiochi raggi della luna che penetrano dalla finestra accanto a me. Un incubo. Affioro il viso tra le mani. Soltanto un altro incubo.

Succede ogni notte: il mio cervello mi fa tornare ad Harborwood e improvvisamente ho di nuovo sedici anni. Tutti stanno bene, la tragedia deve ancora avvenire. Sembra tutto perfetto. Tutto normale. Ma poi il signor Jackson mi uccide. A volte mi pugnala, altre volte mi impicca all'Albero rosso. Spesso mi rinchiude nel suo scantinato.

È una versione corrotta dei fatti. So perfettamente quello che è successo. So chi ha fatto cosa. Eppure, a distanza di dieci anni, la mia mente ancora si rifiuta di accettarlo. Mi chiedo solo quando finirà questa agonia.

Decido di alzarmi dal letto e prendere una boccata d'aria. Entro nel salotto, poi in balcone. Mi siedo sulla sedia a dondolo bianca che si trova nell'angolo del balcone. Ammiro la città dalla grande altezza del mio appartamento. New York è bellissima, sempre energica e piena di vita. Una tenue sfumatura arancione si estende all'orizzonte.

Mi ricorda la mattina in cui arrestarono il signor Jackson. Il sole stava per sorgere, proprio come adesso, e metà degli abitanti di Harborwood si trovavano davanti alla casa stregata, comprese io e mia madre. C'erano anche Julie e Anita ma non osavano staccarsi dai loro genitori.

La polizia aveva circondato l'abitazione. Alcuni poliziotti parlavano con il signor Jackson, cercando di convincerlo ad uscire. Altri, invece, perlustravano la casa, nella speranza di trovare un modo per entrare. Avevano provato a sfondare la porta ma non ci erano riusciti.

«Stammi bene a sentire, Marcus. Se non esci da questa casa entro due minuti, la tua pena aumenterà di altri dieci anni.» lo avvertì lo sceriffo Sinclair, usando un megafono.

Non capivo perché il signor Jackson si rifiutasse di uscire: era stato lui a chiamare la polizia per confessare l'omicidio della moglie e della figlia. Perché, adesso, stava facendo tante storie? Non aveva senso.

La porta si aprì. Sentii molte persone fare un respiro profondo. Ci allontanammo il più possibile dalla casa, ora che il signor Jackson era uscito. Dietro la schiena nascondeva qualcosa. Non avevo bisogno di vederlo per capire che era il suo fucile. Lo stesso fucile con cui mi aveva minacciata durante il nostro primo incontro.

«Mi dispiace.» ripeteva queste due parole in continuazione mentre fiumi di lacrime sgorgavano dai suoi occhi sottili e rugosi.

Tirò fuori il fucile. Alcune persone fuggirono, tenendosi strette i loro figli. Ci aspettavamo tutti che iniziasse a sparare alla folla. O allo sceriffo. O ai poliziotti. Ma io ero certa che avrebbe sparato a me. Per quell'intervista. Per le cose che ci eravamo detti.

Invece puntò la canna del fucile sotto il suo mento. Era pronto a farsi scoppiare il cervello. Non riesco a biasimarlo: aveva perso tutto. Sua figlia, sua moglie, la sua libertà, la sua dignità. Non aveva più senso andare avanti.

I poliziotti corsero da lui. Lo sceriffo ci ordinò di andare via, ma nessuno gli diede retta. Poi lo sparo e le urla.

Gli agenti erano riusciti a togliergli il fucile dalle mani pochi attimi prima aver premuto il grilletto. Due di loro lo tenevano fermo mentre un altro agente lo ammanettava.

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