II

14 4 5
                                    

Si avvicinava dicembre, il Dicembre del 1993 che ha cambiato molto la mia vita. Se dovessi mettere in fila i mesi che hanno maggiormente sconvolto la mia esistenza credo che quel dicembre se la giochi per il primo posto con il luglio del 1995.

Io ero giovane, a scuola ero l'ultimo arrivato, e di problemi ne avevo abbastanza da solo. Ma persino io, in quel novembre, mi ero accorto di tutti i discorsi che facevano molti dei ragazzi più grandi, non solo alcuni invasati che turbinavano in giro per la scuola, ma anche gente apparentemente più tranquilla. A parer loro potevamo tornare a fare un altro sessantotto, anche se non sapevo veramente come era stato il sessantotto perché non era tra le cose che mi interessavano.

Eravamo nel 1993 e non nel 1968, era in corso d'opera la disfatta della Prima Repubblica con l'inchiesta Mani Pulite, si era appena dissolta l'Unione Sovietica e molti ragazzi fantasticavano di poter fare qualcosa di epocale a loro volta.

Molo e mio nonno erano i miei riferimenti politici, entrambi di una sinistra che già si era dissolta nel tempo e di cui restavano poche tracce a parte la Festa dell'Unità e qualche studente dall'aspetto di un rivoluzionario fuori tempo massimo. Il primo diceva che le motivazioni erano buone, giustissime, e che sarebbe stato bello poter partecipare a qualcosa di veramente importante, il secondo sbuffava dicendo che si stava ormai troppo bene per iniziare una qualsiasi rivoluzione.

All'ITI nessuna classe aveva una sua 'aula' e ad ogni cambio di ora si vedevano orde di studenti muoversi lungo i corridoi. Anche senza volerlo, in poco tempo imparavi a conoscere un sacco di facce.

I due tizi che a scuola nostra si vantavano di guidare questa sorta di rivoluzione in scatola erano Baravelli e Toschi, detti Baro e Trotsky. Nelle assemblee di istituto, Baro era quello che giganteggiava, catechizzava, faceva emergere l'astio e l'indignazione e poi li canalizzava verso quelli che ci stavano sopra, dal Ministro dell'Istruzione in giù. Secco, con una voce raschiante dal fortissimo accento romagnolo, era la fotocopia di Liam Gallagher, solo senza occhiali, e in lui c'era un evidente odio per il preside, richiamato più volte nei discorsi e sempre come colpevole di qualcosa.

Trotsky invece parlava più nei corridoi che nelle assemblee. Bidelli, insegnanti, tizi di quinta, poco importava: lui li metteva sotto e partiva a parlare di politica. Era tozzo, e la barba chiara e i capelli lunghi lo facevano sembrare già trentenne, specialmente quando si metteva a discutere la differenza tra comunismo e stalinismo.

Come avrete intuito, Baro e Trotsky non erano precisamente il mio ideale di vita a scuola, non perché mi stessero sul cazzo - cioè in effetti Toschi un po' mi stava sul cazzo con tutto quel parlare di Unione Sovietica, Cina e compagnia cantante - ma perché semplicemente io non volevo avere una vita a scuola. Io volevo fuggire da quel posto che mi teneva ingabbiato tutte le mattine, ma contemporaneamente non trovavo niente di bello fuori se non gironzolare per il centro di Cesena o per il mercato.

Non era nemmeno utile per fare pubbliche relazioni con le tipe, ero inibito ai rapporti con l'altro sesso a scuola, e a giusta ragione all'ITI c'erano a dir molto una cinquantina di esseri femminili su mille studenti, di cui neanche la metà erano considerabili ragazze. Le altre erano più maschi di me che non facevano nulla per nascondere tutti i loro aspetti maschili, e io un po' ne avevo timore.

Ero ignorante sul genere, sull'orientamento, su tutti gli aspetti che una normalissima educazione sentimentale, oggi, racconta alla seconda lezione, se non alla prima, immagino. All'epoca le ragazze mascoline erano o ragazze sbagliate o maschi sbagliati, ambigue. All'epoca, le lesbiche per noi erano solo quelle dei film porno, nude e slinguazzanti tra loro, non esistevano i gay ma c'erano i froci, ed esserlo era più o meno infamante. Era un mondo con poche sfumature e molti chiaroscuri.

E le poche ragazze di aspetto canonicamente femminile erano prese d'assalto da tizi più grandi, più grossi, più somiglianti ai personaggi della TV che erano in voga. Di fotocopie di Brandon Walsh ce n'erano anche troppe, e io non ero tra quelle. Pensavo di avere il mio stile, ma era pur sempre lo stile di un quattordicenne troppo alto per la sua età.

L'estate che era appena passata aveva stravolto il mio modo di vedere le ragazze: le mie coetanee che stavano finendo la terza media si stavano formando sotto degli assurdi maglioni della GAP, a scuola si intuiva vagamente, ma quando si era fatto maggio e si erano messe in maglietta, il mondo si era riempito di protuberanze femminili come funghi dopo un acquazzone.

Sembro fissato, e non fatico a dirlo che ero fissato, e dopo quell'estate non è che fosse passata: guardavo sempre più appassionatamente le tette e le proprietarie delle tette, anche quelle più grandi, anche sapendo che non avrei mai portato a casa nulla da loro.

Anche su questo argomento, affianco a Molo non è che ci stessi così bene come qualche mese prima. Già non tenevo il suo ritmo di studio, poi con lui non si poteva parlare nemmeno di tette, perchè lui grugniva; non si poteva parlare di carburatori, perchè lui grugniva; e non si poteva cambiare stazione alla radiolina perchè lui grugniva.

Sempre più spesso preferivo fare magari qualche stupida gara con lo scooter assieme ai nostri coetanei sul lungomare di Cervia, con loro parlavo di tette e non solo di quelle, eravamo veramente stronzi, perchè le ragazze oggetto di discussione erano descritte più o meno come capi di bestiame, sempre a partire dalle tette.

Ho già detto che ero fissato con le tette?

Il banco era la mia tortura giornaliera: l'altezza un po' fuori taglia per la mia età mi faceva stare tutto ingobbito sulla sedia, le gambe lunghe dovevano stare distese altrimenti tenevano il banco sollevato e tutte le volte che toccavo con un ginocchio il ripiano mal fissato, questo sbatacchiava rumorosamente e mi faceva sentire un perseguitato.

L'unica cosa bella del mio esasperante banchetto erano le incisioni del mio soprannome che facevo col taglierino. Si è vero, mi lamentavo di chi scriveva con l'uniposca e poi incidevo i banchi, ero un incoerente. Ma all'epoca incidere il proprio soprannome era come proiettarsi della storia, era come essere scolpito per sempre nella roccia. Non mi sentivo un vandalo, perché altri prima di me l'avevano fatto, e quegli altri, dal soprannome, dell'annata o che altro, mi sembravano eroi, era gente nata a volte addirittura nel decennio del '60.

Queste erano le condizioni in cui ero quando arrivò un fattore di straordinaria destabilizzazione che scombussolò tutti i miei rapporti con il resto del mondo, per il resto della vita: l'autogestione.

AutogestioneDove le storie prendono vita. Scoprilo ora