Capitolo 1 - Anne

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Venerdì 4 Novembre

"Anne" era ricamato in rosa sul mio bavaglino.
Ormai ero grande, avevo sette anni e mezzo, non mi serviva più. Però lo conservavo con cura e, quando mi sentivo sola, stavo in silenzio ad osservare come le due "nn" si sfiorassero e la "e" curvasse dolcemente.
La nonna diceva che quando sarebbe stata meglio mi avrebbe insegnato a ricamare.
Diceva anche che la mamma sarebbe stata più dolce con me e che tutte e tre avremmo girato il mondo, insieme.
Io però avevo imparato a non crederle più, sapevo quanto le mani le tremassero, che la mamma fosse fatta così e non sarebbe cambiata, sapevo che non riusciva a camminare senza il bastone e perciò non sarebbe mai riuscita a viaggiare.
Ma le sorridevo ogni volta, non riuscivo a contraddirla.

Quanto tempo è passato? Qualche minuto, un'ora o un giorno? Osservo il finestrino mentre perdo la cognizione di tutto il resto, è così bello qui, tra le nuvole candide.

L'aereo è pieno di gente ma non me ne curo.
Ripercorro mentalmente la surreale giornata di oggi: la telefonata, la prenotazione del volo per Londra e la cancellazione di quello per Rotterdam, l'ansia che non mi ha mai abbandonata e ora questo lungo viaggio per una nuova meta, decisamente fuori programma.

Accanto a me, una donna sudaticcia rimprovera il figlioletto che non sembra affatto dispiaciuto, per qualsiasi guaio il piccolo abbia combinato.
Essendo stato un viaggio programmato all'ultimo minuto, ho dovuto spendere un occhio della testa.

Per attraversare l'Oceano Atlantico, il volo durerà ben tredici ore, con scalo a Milano, la capitale italiana della moda.
Sono partita alle 17:00 americane e arriverò a destinazione alle ore 11:00, fuso orario britannico.

Non so se riuscirò a chiudere occhio, viaggiando da sola così a lungo non mi sento molto a mio agio... è in situazioni come queste che mi pesa avere già venticinque anni.

Prendo un blocchetto di carta, una matita verde fluo rosicchiata in passato e inizio a scarabocchiare qualche parola, mentre continuo a guardare il cielo.

Cerco di sistemare al meglio i miei capelli corvini, da poco asciutti, con un codino, sono corti all'altezza delle spalle ma mentre scrivo mi danno abbastanza fastidio perchè sono molto mossi e folti, il più delle volte indomabili.

Ho già buttato giù qualche riga, quando mi sento toccare la spalla e salto in aria per questo contatto inaspettato.

Mi giro e tiro un sospiro di sollievo quando noto che si tratta solo del bambino seduto accanto a me.

Ha i capelli scuri quasi quanto i miei e gli occhi furbetti color del cioccolato, avrà su per giù cinque anni e mi sorride allegramente, mostrando lo spazio di un dentino mancante.

Mi ricorda un po' la me bambina, sempre felice e combinaguai, prima che mia nonna si ammalasse...

«Cosa stai scrivendo, signorina? È una lettera d'amore per il tuo ragazzo?» mi chiede sporgendosi per guardare «Io non so leggere ma almeno so scrivere il mio nome!».

Considerando che la "lettera d'amore" non è altro che l'epilogo del mio ultimo lavoro, dovrei ritenermi offesa da questa creaturina sdentata ma ricambio semplicemente un sorriso, giro la pagina e porgo il mio quadernino al bimbo.

"James"

Mi sveglio improvvisamente sbattendo il capo contro il finestrino. Rivolgo il mio sguardo verso l'esterno e mi rendo conto che manca davvero pochissimo prima di arrivare a uno degli aeroporti di Londra, quello di Gatwick.

Lo scalo sul suolo italiano è durato più di quanto mi aspettassi, quindi un paio di orette fa sono crollata nel sonno.  Ad aspettarmi lì fuori c'è un taxi pagato gentilmente dalla mia prozia Abigail, colei che mi ospiterà in questi giorni.

Abigail era la sorella di mia nonna ma di lei non so quasi niente, non avendola mai incontrata prima.
Ha sempre vissuto qui a Londra, non ha mai avuto figli né si è mai sposata, lavorava umilmente come sarta.
Questo è tutto quello che mi è stato raccontato.

Dopo un turbolento atterraggio, recupero di corsa il mio bagaglio e mi precipito sul taxi, pronta - si fa per dire - per iniziare questa avventura inattesa.

«Buongiorno, signorina» mi saluta un uomo sulla cinquantina dai capelli brizzolati, il taxista.

Inizia a guidare mentre mi metto ad osservare il magnifico panorama che Londra ha stamattina da offrirmi. Sono ancora parecchio stordita dopo tredici ore di volo ma ho già dormito abbastanza.

Casa di zia Abigail dovrebbe trovarsi nel distretto di Kennington, internet segna un'ora in auto.

Rileggo con attenzione ciò che ho scritto nell'ultimo periodo, cercando di non vomitare per il movimento del taxi.

Il cellulare inizia a vibrare ed è così fastidioso che rispondo, è, come immaginavo, mia madre.

«Pronto?» la mia voce esce terribilmente titubante.

«Anne, santo cielo! Stai bene?» sembra davvero preoccupata, inutilmente, come al solito.

«Sì mamma stai tranquilla, sono sul taxi, quando arrivo dalla zia ti richiamo» mento e riattacco senza darle tempo di dire qualsiasi altra cosa.

Le voglio un po' di bene in fondo e le sono grata ma mi urta il fatto che mi tratti come se avessi dieci anni... sono adulta ormai.

Rifletto e arrivo alla conclusione di essere stata fin troppo dura con mia madre, non vorrei che dalle mie parole ne scaturisse una sua crisi nervosa, ma il taxi accosta per farmi scendere, metto tutti i pensieri in angolo remoto del mio cervellino e mi avvio verso l'abitazione di quella che dovrebbe essere mia zia.

L'edificio in cui vive, il 246 di Kennington Park Road, ha un'aria tozza e trascurata.
Si tratta di un piccolo condominio da quattro appartamenti, all'occhio risalta subito una piccola scala antincendio che porta al tetto.
Nonostante le poche abitazioni che lo compongono, si trova molto in alto perché, sotto esse, c'è un piccolo supermarket dall'aspetto piuttosto trascurato.
Tutte le case di fianco hanno ai piani bassi vari negozietti e piccoli bar, di fronte c'è un grandissimo parco composto da alberi centenari e roseti curati quotidianamente.

Accendo di sfuggita il cellulare che segna "Venerdì 4 Novembre, ore 18:21".
Mi do una sistemata ai capelli mentre attendo che scocchino le 18:25.

Al suono del campanello, zia Abigail mi apre il portone senza nemmeno chiedere il classico «Chi è?»... se avessi brutte intenzioni ciò non sarebbe a suo favore, penso come sempre paranoica.

Non sapendo a che piano abiti, salgo le scale interne piuttosto malridotte, cercando una porta aperta o una targhetta con un nome noto.

Finalmente all'ultimo piano leggo 'Abigail Evans' e busso.
Sento dei passi avvicinarsi sempre di più e dopo qualche secondo di silenzio, deduco che mi stia osservando dallo spioncino, accenno un timido sorriso.

«Chi siete?» mi domanda ancora attraverso la porta d'ingresso.

«Zia Abigail, sono Anne Thompson, la nipote di tua sorella May» rivelo la mia identità con sicurezza ma senza alzare la voce, non vorrei che si spaventasse.

Al contrario, la porta si spalanca e rivela una donna sulla settantina, con i corti capelli bianchi e un po' di rughe sul viso.

«Oddio, vieni, fatti vedere!» mi prende il viso tra le mani e mi sento un po' a disagio, da dove viene tutto questo affetto? Potevi venirmi a cercare, se volevi conoscermi, invece di non fare nemmeno una telefonata per Natale in venticinque anni.
Il disagio mi pervade.

«Ho tantissime cose da raccontarti ma... forse prima è meglio che sistemi le tue cose» è un po' più bassa di me per colpa degli anni ma mi prende sottobraccio e mi accompagna dentro quelle quattro mura impolverate.

Tra New York e RotterdamDove le storie prendono vita. Scoprilo ora