Non avrei dovuto

16 0 0
                                    


Eliza

L'aver fatto andare le mani per buona parte della notte non mi aveva stancata, ero stranamente rinvigorita dall'esercizio fisico, ero felice e anche se era strano, qualcosa dentro di me accettava la sottomissione di tutti quei giaguari.
Non ne avevo mai visti tanti riuniti, mi avevano insegnato che siamo animali solitari. Solo le famiglie stanno insieme, ed io non avevo avuto modo di viverlo.
Il pensiero di mio padre mi tornava alla mente quasi ogni giorno da che avevo conosciuto Gabriel, non me ne spiegavo il motivo dato che erano estremamente diversi.
Il colore della pelle del vampiro sembrava oro liquido misto a terra rossa, nelle foto mio padre sembrava perennemente abbronzato ed effettivamente aveva un tono dorato. I loro occhi però erano come i giorno e la notte, quelli di Gabriel erano miele caldo, in grado di intrappolarti al primo sguardo, io avevo preso gli stessi occhi profondi di mio padre: tanto scuri che faticavi a distinguere la pupilla dall'iride. Mi ricordo il bel sorriso di mio padre, i denti bianchi incorniciati dalle labbra sottili, ridevamo tanto insieme. Gabriel nascondeva il proprio dietro le dita della mano, non sapevo il perché, ma era uno dei più bei sorrisi che avessi mai visto.
Mi fermai con le dita a mezz'aria per chiamare l'ascensore.
Mi venne alla mente il modo in cui mi sentivo al sicuro nell'abbraccio di mio padre e per la prima volta da quando l'avevo sepolto, avevo sentito una sensazione di quiete e sicurezza simile, forse addirittura più forte.
Forse Gabriel somigliava davvero a mio padre più di quanto non avessi immaginato.
Feci una smorfia e scossi la testa, nell'ascensore mi sistemai la felpa ed i capelli ancora bagnati dopo ladoccia.
Arrivata all'ultimo piano le porte dell'ascensore si aprirono, né Adele, né Woojin erano alle loro scrivanie, la porta dell'ufficio di Gabriel era socchiusa, sentivo una voce di donna venire dall'interno, mi aveva detto di raggiungerlo appena fossi stata pronta, aveva finito di lavorare e mi aspettava per tornare a casa.
Aprii la porta con un sorriso e rimasi fulminata con un piede oltre l'uscio.
La mascella mi cadde e le parole evaporarono, la lingua mi si seccò e smisi di respirare.
I muscoli si fecero dipietra.
Una donna con un aderente vestito nero era a cavalcioni su di lui, seduto alla sua poltrona, di profilo, con la testa appoggiataallo schienale. Il suo viso era nascosto da capelli vaporosi e biondialla Marilyn. Lei si accorse del mio ingresso e si sollevò riavviandosi la chioma, il rossetto rosso era sbavato e lui ne aveva una striscia sul collo. Ero di pietra, avrei voluto gridare ma una mano invisibile mi stringeva la gola.
Lei si sedette sulle sue ginocchia appoggiando le mani sul suo petto e mi sorrise senza dire una parola, socchiudendo gli occhi con aria di vittoria.
Lui aveva le mani sui braccioli della poltrona della scrivania, girò pigramente la testa nella mia direzione, sbatté le palpebre e mi disse, come se niente fosse:
«Hai già finito?»
Non riuscii a dire nemmeno una parola, lei si mosse lentamente come un serpente e attorcigliò le braccia lunghe e sottili attorno al suo collo, in modo da strusciare il proprio petto, parzialmente nudo sulla sua guancia.
Lui socchiuse gli occhi un momento e inspirò a fondo.
Una lama mi trapassò in due tagliandomi lo stomaco, fu il dolore a darmi la forza di girare sui tacchi e correre fino all'ascensore.
Mi rannicchiai in un angolo e iniziaia piangere, non potevo essere stata così stupida, così ingenua da pensare che fossimo l'uno dell'altra e che fosse tutto magnificamente bello e perfetto. Ero una delle tante, lo sarei sempre stata, mi ero legata per la vita ad uno stronzo che non aveva avuto nemmeno la decenza di dirmi come stavano le cose prima di incatenarmi a sé.
La disperazione straripò come una tempesta e mi portò con sé, trascinandomi in un luogo buio dove mi mancò il fiato. Non riuscivo a smettere di piangere e non avevo le forze nemmeno per reggermi in piedi. Tremavo e piangevo. Ero alla deriva, un potere che non sapevo gestire mi stava frustando dall'interno, sbattendomi contro scogli di pietra ogni volta che cercavo di emergere per prendere una boccata d'aria, sentivo le ossa rompersi e rinsaldarsi ad ogni sferzata. Una voce mi arrivò da lontano ma non ne capii le parole.
Sentii un paio di braccia stringersi attorno al mio corpo e respirai un odore che conoscevo, mi lasciai prendere in braccio e mi aggrappai a chiunque fosse, vagamente consapevole che esisteva ancora un mondo fuori dalla burrasca in cui stavo annegando.
«Vera?» Non potevo vedere che onde scure contro un cielo nero, sapevo di avere ancora un corpo ma non sapevo dove fosse.
Dall'acqua nera comparvero due mani e mi afferrarono.
Mi senti istrappare dall'acqua con forza, sollevata di peso dal mondo psichico da cui non riuscivo ad uscire e fu come cadere dal primo piano diretta sull'asfalto.
La botta mi tolse il fiato dai polmoni ma subito ripresi a respirare con avidità per recuperare l'ossigeno. Avevo la vista annebbiata e gli occhi ancora pieni di lacrime. Davanti a me il volto di Vera, stravolto dalla preoccupazione, la bocca spalancata. Al suo fianco, seduta a terra con il fiatone, pallida e sudata, con i capelli bianchi scomposti c'era Dama Patrizia.
Mi guardai attorno senza riuscire a capire, sentivo solo un gran dolore all'altezza del cuore.
«Eliza?» Vera mi chiamò con dolcezza.
Mi girai verso di lei. «Cos'è successo?»
Dama Patrizia si mise in ginocchio con fatica «Bambina sei portatrice di un potere che non dovrebbe essere lasciato libero, avresti potuto distruggere l'intera torre se non ti avessi tirato fuori dal tuo stesso inconscio.»
Io guardai Vera «mi dispiace, mi dispiace.» Mi tornarono le lacrime.
«Respira, profondi respiri.»
Chiusi gli occhi, le presi le mani che mi offriva e le strinsi con forza, mi mise in ginocchio, presi a respirare e mi concentrai su quello.
David comparve nel vano delle scale dove mi resi conto diessere.
Sollevai lo sguardo su di lui e riuscii solo a dire: «Mi dispiace.»
«Cos'è successo?» Chiese lui avvicinandosi senza toccarmi.
Chiusi gli occhi e reggendomi alla presa di Vera dissi tutto d'un fiato : «Gabriel ha un'altra.»
Si guardarono tutti con aria interrogativa e sbigottita, forse più di me.
«Non voglio restare qui.»
«Starai da me.» Vera mi tirò in piedi lentamente, e sospirai senza essere capace di oppormi, d'altronde non avrei saputo dove andare, non avevo con me nemmeno i miei effetti personali, solo il cellulare, mi ero affidata così tanto ad uno sconosciuto che avevo perso, in una manciata di giorni, l'integrità di donna indipendente che ero sempre stata.
Rannicchiata sul sedile di un'auto scura cercai di sgombrare la mente. Non volevo rischiare di ricadere nel baratro in cui ero scivolata e miconcentrai solo sul mio respiro, la mano di Vera che stringeva la mia era un'ancora abbastanza forte da tenermi con i piedi saldi a terra.
Dama Patrizia disse che avrebbe mantenuto il segreto di quello che era successo perché la responsabilità, secondo lei, non era interamente mia, ma del vampiro a cui mi ero legata. Mi venne da ridere. Risi di me stessa, per come avevo creduto alle bugie che mi aveva sussurrato all'orecchio e tra le pieghe della mia stessa pelle.
Avrei dovuto prendere lezioni ed in fretta sul come controllare quello che si era svegliato dentro di me e di cui non ero nemmeno consapevole.
L'appartamento di Vera era un ultimo piano da cui si vedeva la Mole Antonelliana, il giorno stava per arrivare, sentii bussare nel retro della mia mente Gabriel che chiedeva di entrare, con rabbia e forza chiusi quel canale e lo seppellii il più in profondità che potei, non volevo nemmeno sentire vibrare la nostra connessione. Non sapevo di cosa sarei stata capace. Non volevo fare altri danni.
Con le mani sul viso e le gambe incrociate sprofondai su un divano comodo ed enorme. Aprii gli occhi nel sentirela tigre vicina a me. Era inginocchiata sul tappeto azzurro, seduta sui talloni. Si era tolta la giacca e le scarpe. Le mani mi toccarono le ginocchia ed i suoi occhi incrociarono i miei.
Si sollevò sulle ginocchia facendo scivolare lentamente le mani sulle mie cosce e si avvicinò al viso con la cautela che si userebbe con un predatore la cui reazione non è prevedibile. C'erano un milione di ragioni per cui avrei dovuto mettere una mano tra me e lei, ma ero arrabbiata, ferita, sconvolta, mi sentivo sola ed erano tutte motivazioni sbagliate. Non la fermai, anzi, allungai il collo per trovare le sue labbra già schiuse e mi aggrappai ai lembi della camicia per tirarla a me.
La sua lingua fu così improvvisa che non ebbi il tempo di pensare a cosa fare, mi lasciai trascinare verso dove lei voleva condurmi.
Le sfilai la camicia dai pantaloni. Ci separammo per prendere una boccata d'aria e lei mi prese per i fianchi, si infilò sotto la maglietta e mi sollevò per lasciarmi seduta sul tavolo.
Avevo il fiato corto, deglutii mentre i suoi occhi non lasciavano i miei, bruciavano di qualcosa simile alla fame. Con brama mi sfilò la maglietta, se avesse potuto mi avrebbe strappato i pantaloni e con essi la biancheria. Il mio corpo nudo si riempì di brividi, chiusi le gambe istintivamente mentre lei si allontanava di un passo. Guardò ogni centimetro del mio corpo. Aveva le labbra schiuse, si morse il labbro ed inspirò a fondo come prima di un tuffo, prima di avvicinarsi di nuovo a me e divorarmi. Le sue labbra erano calde, la lingua mi bagnava la pelle del collo, scese sulla spalla con una lentezza dolorosa. Mi aggrappai al bordo del tavolo e ruotai indietro la testa mordendomi le labbra per trattenere i gemiti che mi sentivo nel petto. 
Mi prese un seno con decisione, senza stringere, solo come un'altra donna vrebbe potuto.  
Si staccò da me per soffiare dove aveva lasciato il segno e scese sul capezzolo, iniziò a succhiare e leccare lentamente, era un piacere lento al pari di un'agonia perché non troppo forte da potermi portare sul margine del piacere e non troppo debole da poterlo ignorare. Un gemito mi sfuggì dalla bocca e quando lo sentì percepii il sorriso sulle labbra che aveva attorno al mio seno. Sentii due dita appoggiarsi tra le mie cosce come una gentile richiesta, le aprii piano quel che le bastava per farle infilare i polpastrelli. Una vibrazione le percorse il petto mentre un suono simile ad una risata soddisfatta le usciva dalle labbra quando si accorse di quanto fossi bagnata.
Ad un certo punto si staccò, io restai ansimante, sospesa, riaprii gli occhi e la cercai con lo sguardo appannato, si sfilò la camicia e si slacciò i pantaloni, si inginocchiò davanti a me e con le mani risalì dal retro delle ginocchia alle natiche, mi tirò gentilmente a sé ed i suoi occhi sembrarono brillare nell'alba che entrava dalla finestra mentre le sue labbra scomparivano tra le mie pieghe.

Abbraccia la notteDove le storie prendono vita. Scoprilo ora