Capitolo terzo

34 2 0
                                    

Mio Dio, questa nave è bellissima! Per i passeggeri di prima classe, il percorso che porta all'interno inizia vicino alla sala ristorante, da cui parte uno scalone più sontuoso di qualsiasi cosa io abbia mai visto a Moorcliffe. Lucido legno intagliato, rampe che scendono sinuose e aggraziate, un elegante orologio di ghisa: mi sarei aspettata di vedere qualcosa del genere in una residenza aristocratica, non su una nave. Persino la moquette color crema su cui cammino è più folta e morbida di qualsiasi tappeto Aubusson. O forse sono io a essere ingenua? Avverto fastidiosamente i limiti della mia esperienza. Forse è tutto molto banale e ordinario, e il fatto che mi lasci senza parole dimostra quanto io sia una povera e ignorante ragazza di campagna. E invece no. Rivolgo l'attenzione alle persone benestanti che mi circondano e, sebbene siano troppo raffinate per esprimere la propria sorpresa, gliela leggo negli occhi. Una brava domestica impara a studiare i visi altrui, a cogliere accenni dell'umore del padrone anche dal minimo cambio d'espressione, ma qui certe sottigliezze non servono. Tutti ridono deliziati, si sorridono a vicenda soddisfatti e permettono alle loro mani di scorrere sensuali sul pregiato intaglio del legno. Il Titanic è spettacolare per loro quanto lo è per me. Nessuno qui è insensibile al suo splendore... Un momento. Qualcuno sì. Due persone, per l'esattezza. Proprio sulla porta, ignorati da chi passa loro davanti, ci sono due gentiluomini impegnati in una fitta conversazione. Entrambi molto alti e dalle spalle larghe. Uno è più maturo, forse sulla trentina. Porta un pizzetto nero, simile a quello dell'uomo che mi ha affiancato in strada per un attimo ieri, anche se l'ho visto troppo poco per essere certa della somiglianza. L'altro... Anche lui l'ho visto solo di sfuggita, ma non dimenticherei mai il suo viso. È sicuramente il giovane di ieri sera. E ora che c'è luce, quella del sole splendente e del bagliore che si sprigiona dagli eleganti lampadari di vetro smerigliato del Titanic, posso guardarlo tutto il tempo che voglio. È più grande di me forse solo di quattro o cinque anni: ne dovrebbe avere circa ventidue. Ha la mascella forte e spigolosa, che fa risaltare gli zigomi alti. La bocca è ben disegnata, labbra piene che qualsiasi ragazza desidererebbe. Spalle larghe, vita stretta, e sotto un accenno di muscoli. Ricordo quanto fosse solido il suo corpo quando mi ha schiacciata contro il muro. I capelli ricci e ribelli, di un castano scuro con sottili riflessi rossi che fanno risaltare il marrone degli occhi, non riesco a decidere se siano un difetto o il suo maggiore pregio. Sono indomabili, direi. Non li tiene corti come farebbe la maggior parte degli uomini con una simile capigliatura. Lascia invece che i ricci ondeggino liberamente, come si dice facciano gli artisti e i bohémien. Ma lui non è un bohémien e nemmeno un marinaio, come avevo sospettato per un attimo, l'abito di alta sartoria che indossa ne svela ricchezza e posizione. Rallento il passo. La cassa di colpo non mi pesa più, o almeno non avverto il dolore alle braccia. Non riesco a riprendermi dallo shock di averlo rivisto, addirittura qui, e dal potente effetto che ha su di me. Deve avermi sicuramente notata, come se quella strana forza che ci ha fatto incontrare ieri sera avesse su di lui lo stesso potere che ha su di me, eppure non si volta. Sono distratti, lui e il suo compagno di viaggio. Si avvicinano di più l'uno all'altro, quasi non volessero far sentire ad altri la loro conversazione. Il suo corpo è leggermente girato rispetto a quello dell'uomo con il pizzetto, come se desiderasse prendere un'altra direzione. Eppure parlano molto intensamente. Stanno discutendo o tramano qualcosa? La tensione fra loro si spezza di colpo quando il tizio con il pizzetto alza lo sguardo verso di me... I suoi occhi azzurro ghiaccio mi scrutano da capo a piedi, anche se solo per una frazione di secondo, ma è sufficiente a darmi un brivido che mi percorre fin dentro il midollo. Mi guarda come se mi conoscesse. Come se mi odiasse. E c'è qualcosa di familiare nel suo sguardo. È davvero lui, l'uomo di ieri sera? Mi giro in fretta. Di certo la sua animosità non è altro che l'irritazione di un ricco. Mi ha sorpreso a origliare la loro conversazione, a intromettermi negli affari di persone superiori a me. Se si lamentasse con un commissario di bordo, o peggio ancora con lady Regina, mi aspetterebbero giorni infernali. Eppure sento di nuovo quello sguardo sulla schiena. È reale come gli abiti che indosso. È freddo e malefico, e mi segue anche quando mi avvicino a un assistente di bordo per cercare una via di fuga. La suite dei Lisle è sul ponte A, che a giudicare dall'espressione dell'assistente di bordo dev'essere piuttosto maestoso. I passeggeri di prima classe vengono tutti scortati alle rispettive cabine, ma l'assistente si aspetta che io la trovi da sola. Non si offre di prendere lui la cassa, o di cercare qualcun altro che lo faccia - e perché dovrebbe? - così la appoggio davanti ai piedi, mentre mi fornisce le indicazioni per raggiungere la cabina. Ricevo la chiave delle stanze dei Lisle e la combinazione della cassaforte senza fare domande. Sarei inutile, come domestica, se non potessi avere accesso a qualsiasi cosa possano desiderare i miei padroni.
Poi tira fuori un'altra chiave. - Con questa puoi andare dalla terza alla prima classe. - Ha un'espressione scontrosa. - Non è una cosa che facciamo con chiunque. Le leggi degli Stati Uniti prevedono che quelle porte restino chiuse, e se scopriamo che non hai obbedito ti confischeremo la chiave all'istante, e per un po' la moglie del visconte dovrà fare a meno della sua servitù. È chiaro che questo tizio non ha mai incontrato lady Regina. Lo paralizzerebbe su due piedi con una sola occhiata. Ma io devo mostrarmi intimorita e scrupolosa, perciò faccio un segno di assenso mentre mi infilo la chiave in tasca e mi chino a prendere la cassa. - Sissignore. Sarà mia premura, signore. Annuisce e mi congeda con un cenno della mano, ansioso di rivolgere l'attenzione a persone molto più degne del suo tempo prezioso. Percorro il resto del tragitto da sola. Controllo alle mie spalle per essere sicura che l'uomo dagli occhi di ghiaccio non mi stia più guardando. Non lo vedo da nessuna parte, ma non mi sento ancora tranquilla. Mi affretto verso l'ascensore, ansiosa di allontanarmi da lui. Persino i corridoi del Titanic sono sontuosi. La moquette, che qui è rossa con un disegno floreale, è morbida sotto i miei piedi doloranti, e la pittura bianca è fresca e lucente. Dopo la confusione della banchina, questo silenzio è quasi inquietante. Anche se ci sono altre persone che entrano nei loro alloggi di prima classe, nessuno mi è davvero vicino. Per un istante ho la sensazione che la nave sia tutta per me. Cosa farei, se fossi da sola su questo transatlantico per cinque giorni? Tutta sola tranne l'equipaggio, ovviamente; andrei ben poco lontano senza. Potrei fare lo scivolo su quei maestosi corrimano dello scalone principale. Potrei starmene seduta nella sontuosa sala ristorante e schioccare le dita, chiedendo che mi portino, uno dopo l'altro, quei cibi prelibati che mi arrivano solo quando il cuoco li ha bruciati troppo per il fine palato dei Lisle. E cosa indosserei? Non essendoci nessuno a guardarmi, equipaggio a parte, nessuno a darmi ordini o a giudicarmi, non ci sarebbe più bisogno di questa squallida uniforme. Immagino di togliermi la cuffietta bianca e lanciarla nell'oceano dai parapetti del ponte. Che se la mangino pure gli squali, per quel che mi importa. È così piacevole sognare a occhi aperti che non mi accorgo dell'uomo che si sta avvicinando finché non mi è quasi accanto. È lui. Non il mio salvatore dai capelli castani, bensì quello con il pizzetto. Ora sono certa che è lo stesso di ieri sera. E non si tratta di una semplice e imbarazzante coincidenza: ha lo sguardo fisso su di me, la mascella serrata in un'espressione decisa.
- Dunque, ti piace ascoltare le conversazioni degli altri. - La sua voce è un brontolio cupo e basso, e le parole hanno un accento che non conosco. Russo, forse? I Lisle ospitano nobili stranieri troppo di rado perché possa esserne sicura. - Ieri sera e poi di nuovo questa mattina! È un buon modo per origliare molte cose interessanti, ma è scortese. Davvero molto scortese. Con un certo sollievo, penso che sia semplicemente un uomo odioso a cui non piace che qualcuno lo ascolti di nascosto. Da questa distanza ravvicinata, vedo che anche lui è un bell'uomo, o almeno lo sarebbe, se non fosse per il gelo innaturale che gli si legge nei pallidi occhi azzurri. - Vi chiedo perdono, signore. Non ho sentito nulla, signore. Vi prego di perdonarmi. - Non lo dire, non lo dire. - Non hai sentito nulla? Di nuovo? Eppure eri così attenta, questa volta. - C'era molta confusione, signore. Chiedo scusa, signore. - A volte, quando fai uno sbaglio del genere, reale o immaginario che sia, agli aristocratici basta umiliarti quel tanto che serve a farli sentire potenti al punto giusto, e poi finisce lì. Ma più mi scuso, più quest'uomo sembra arrabbiarsi. Lo circonda un'energia sempre più oscura, e mi sento agitata come non mai. Per fortuna ho già raggiunto la cabina dei Lisle, devo solo tenerlo buono per il tempo necessario a varcare la soglia. I suoi occhi si spostano sulla cassa che ho in mano. - Che carico pesante. - Nessun problema, signore. - È lo stemma dei Lisle, dico bene? Non è strano che un membro della nobiltà riconosca lo stemma di un altro. - Sì, signore. - Mi sembrava, infatti. - Ora è vicino, troppo vicino, posso sentire l'odore della sua pelle, ricorda la legna bruciata. Il suo sorriso è tirato e incerto, nascosto dietro la lama nera del pizzetto. I denti hanno qualcosa di strano. - Sarai molto stanca. Non vuoi che ti aiuti? Il tono è quasi gentile, il che lo rende ancora più spaventoso. Anche se non so dire cosa di preciso mi angosci così tanto di quest'uomo, mi fido del mio istinto e mi allontano. - No, signore. Grazie, signore. - Così proprio non va. - Sotto quelle parole traspare ora un fremito di rabbia. Una delle sue mani, avvolta in un guanto nero, afferra una maniglia, ma riesco a tirare a me la cassa un istante prima che possa strapparmela. Barcollo all'indietro finché non sento la porta della cabina dietro la schiena. Vorrei gridare aiuto, ma non vedo nessun altro, e poi sono una domestica. Lui è un gentiluomo. Qualunque disputa ci vedesse coinvolti, chiunque crederebbe a lui, non a me. Ma perché un gentiluomo dovrebbe tentare di commettere un furto?
Il suo sorriso si allarga. - Sarebbe proprio perfida la cameriera che cercasse di derubare i propri padroni in un momento del genere. Datele un dito... non si dice forse così? Andare a servizio presso famiglie importanti ti toglie da una casa umile e da un futuro già segnato, dalla posizione che ti spetta nella società. Ed ecco che ti trasformi in una ladruncola intrigante. - Signore, vi sbagliate. - È veramente una cosa sciocca da dire, ma non mi viene in mente altro. Devo sforzarmi di non offenderlo. - Non ho rubato niente. È la cassa dei miei padroni e la devo riporre, signore. Vi prego di scusarmi. - Cosa direbbero se aprissero la cassaforte e non ci trovassero la cassa? Devo difendermi, ma come? Mi piacerebbe proprio dargli un calcio negli stinchi, ma non ci sono parole per descrivere in che genere di guai mi caccerei se aggredissi un gentiluomo. - Signore, questo non succederà. Credo di dover andare a chiamare un assistente di bordo, adesso. - Non penso che arriverebbe in tempo per salvare una piccola serva - mormora lui, quasi canticchiando. Si diverte, il bastardo. - Consegnami la cassa, ragazzina. O avrò l'enorme piacere di portartela via. Alza la mano guantata e fa scorrere un dito sul mio viso. Quando incontro il suo sguardo penetrante, la paura mi si insinua fin nel profondo dell'animo: non semplice nervosismo, ma puro terrore. Erano questi gli occhi che mi seguivano sulla banchina. Ancor prima che io lo vedessi insieme al giovane dell'altra sera, lui mi aveva già vista. È lui il cacciatore. E io sono la sua preda. Mi ha in pugno. Dagli la cassa, penso. Dagli la cassa, e poi dirai che è stata rubata, e anche se non ti crederanno, non ti metteranno in prigione. Oppure sì? È tutto quello che vedrò mai dell'America? La cella di un carcere? Ma per quanto spaventata, non posso arrendermi così facilmente. Mio Dio, quanto odio i prepotenti. - No, signore - ribatto e alzo il mento, sfidandolo a uscire allo scoperto. Accetta la sfida. Mi prende per le spalle e mi tira con violenza in avanti, così perdo l'equilibrio e finisco con la faccia vicino alla sua. Ha l'alito di chi ha appena mangiato carne cruda. Poi mi spinge di nuovo contro la porta, abbastanza forte da farmi sbattere dolorosamente la testa. Per un istante sento odore di sangue. - Cosa ti spaventa di più? - sibila. - Lasciatemi! - Cerco di spingerlo via, ma la cassa pesante mi intralcia. - Essere licenziata e messa alla porta, a morire di fame? - Anche se mi tiene ancora ben ferma per le spalle, inizia ad accarezzarmi con i pollici, ma con forza, come volesse lasciarmi dei lividi. - Oppure che ti si faccia del male?
Che si faccia del male a qualcuno che ami? Qualsiasi cosa sia, io posso farla succedere. Non so cosa dirgli. Non so cosa fare. So solo che lo odio. Così gli sputo in faccia. La saliva gli gocciola sul pizzetto e i suoi occhi color ghiaccio di colpo si infiammano. La mia paura aumenta quando capisco che può essere molto più cattivo di così, e che sta per diventarlo adesso... - Smettila! - grida a quel punto una voce. Ci voltiamo entrambi, ed ecco l'altro, quello più giovane, quello che mi ha salvata ieri e lo sta facendo di nuovo. Mi abbandono contro la porta per il sollievo, e la faccia dell'uomo con la barba si altera. - Vattene, Alec. Ma lui non ci pensa nemmeno. - Non è né il momento né il luogo adatto per i tuoi giochi, Mikhail. Lascia in pace questa povera ragazza. - Un giorno imparerai che non c'è mai un momento sbagliato per godere di ciò che ci spetta di diritto - risponde Mikhail, il cacciatore. Tuttavia mi lascia andare le spalle. Tra loro c'è qualcosa che non capisco, una sorta di conoscenza condivisa. Sono amici? Com'è possibile? Mikhail mi terrorizza, Alec invece ha su di me un effetto completamente diverso. Dovrei avere paura di lui come ne ho dell'altro? La bellezza non è garanzia di bontà, lady Regina ne è la dimostrazione. Non lo so e voglio solo che tutto questo finisca il prima possibile. Mikhail mi lancia un'altra occhiata che mi fa stringere lo stomaco, poi mi saluta sfiorandosi il cappello - un modo per farsi gioco delle buone maniere, o di me - e se ne va. Eppure so che non è finita. Anche gli occhi di Alec mi studiano, ma il suo sguardo è diverso. O almeno lo è la mia reazione. Quando Mikhail mi fissava, mi sentivo gelare; l'attenzione di Alec invece mi scalda il sangue, mi fa arrossire. Eppure non so dire se mi sta osservando con desiderio, disprezzo o... non saprei. - Dovresti stare attenta. Ancora una volta non capisco se sia un avvertimento o una minaccia. Eppure so, al di là di ogni dubbio, di essere stata salvata, di nuovo. Prima che io possa dire qualcosa, Alec si allontana, in fretta, come se fosse un criminale che scappa dalla scena del crimine. Dapprima lo seguo con gli occhi, sconvolta, incapace di capire cosa sia successo, e cosa sarebbe potuto succedere se lui non fosse arrivato.
Poi sento la chiave schiacciata nel mio palmo sudato, stretto sulla cassa, e mi maledico per essere stata tanto stupida. Entro di corsa nella cabina e chiudo a chiave la porta. Sono al sicuro, per ora.

Hai finito le parti pubblicate.

⏰ Ultimo aggiornamento: Jun 30, 2015 ⏰

Aggiungi questa storia alla tua Biblioteca per ricevere una notifica quando verrà pubblicata la prossima parte!

FatefulDove le storie prendono vita. Scoprilo ora