Capitolo secondo

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10 aprile 1912 È una bella giornata di primavera in riva al mare, proprio quella che ho sognato per tutta la vita. Nei romanzi, per descrivere scene come questa, si usa dire che l’aria è fresca e l’acqua blu è punteggiata dalla luce del sole. L’ho immaginata migliaia di volte, lassù nella mia soffitta buia. Questa mattina la primissima cosa che ho pensato è stata: Finalmente vedrò l’oceano. Ma l’oceano non è blu, almeno non così vicino alla costa; è dello stesso marrone fangoso del bacino intorno al mulino, fatta eccezione per lo strano verdognolo delle onde. Il porto non è un’oasi di pace dove una ragazza possa passeggiare tranquilla. È più affollato delle strade di ieri sera, gente povera e gente ricca, scarpe eleganti con le stringhe e rozzi scarponi, e un tanfo di sudore più intenso dell’odore del mare. Le persone urlano tra loro; alcune sono felici, altre impazienti o arrabbiate, ma l’energia febbrile della folla rende difficile distinguere le une dalle altre. In acqua sono stipate innumerevoli navi, compresa la nostra, la più grande di tutte. Il transatlantico è l’unica cosa davvero bella che vedo. Bianco e nero, con ciminiere di un rosso acceso che s’innalzano verso il cielo, è così enorme, armonioso, a suo modo perfetto, che è difficile pensare sia stato costruito da mani umane. Sembra piuttosto una catena montuosa. Almeno, le catene montuose descritte nei romanzi. Non ho mai visto neppure quelle. — Ti sei gingillata abbastanza, Tess — dice lady Regina che, come non si stanca mai di ricordare a tutti, è la moglie del visconte Lisle — o vuoi che ti lasciamo sulla banchina? — No, milady. — Mi ha di nuovo sorpresa a sognare a occhi aperti. Per fortuna non mi rimprovera come suo solito. Probabilmente ha scorto tra la folla uno dei suoi amici altolocati e non vuole farsi vedere mentre riprende una domestica in pubblico. — Vi siete dimenticata una cosa, madre. — Irene, la maggiore delle figlie e mia coetanea, mi rivolge un sorriso incerto. — Dovreste chiamarla “Davies” ora che è la mia cameriera personale. È più rispettoso. — Darò il mio rispetto a Tess quando se lo sarà guadagnato — replica brusca lady Regina, lanciandomi un’occhiata mentre mi affretto a raggiungerle. Rinsaldo la presa sulle cappelliere che ho in mano: non sono particolarmente pesanti, ma trasportarne quattro alla volta non è semplice. Quest’anno la moda vuole che si portino cappelli grandi.
— Quello è Peregrine Lewis? — chiede Layton, l’unico figlio maschio ed erede della famiglia Lisle. È alto e snello, quasi ossuto, con spalle e gomiti spigolosi. Scruta fra la gente che ci circonda e sorride, facendo arricciare i baffi sottili. — Suppongo sia qui per salutare la zia. Per lucidarle i bauli e chiederle cartoline. Ah, che leccapiedi! È spregevole. — Non erediterà una fortuna dai genitori, perciò deve prendersi molta cura degli altri parenti. — Irene alza lo sguardo verso il fratello; le mani, coperte da guanti di pizzo, sono congiunte all’altezza della vita. È sempre molto timida, anche quando cerca di difendere qualcuno. — Non ha avuto i tuoi privilegi. — Bisogna comunque conservare un po’ d’orgoglio — insiste Layton, ignaro del fatto che lui è sempre pronto a seguire la madre come un cagnolino obbediente. — Vermicello — borbotta Ned accanto a me. Devo mordermi le labbra per trattenere una risata. È il soprannome che Ned ha dato a Layton di nascosto, tra noi della servitù, e gli calza a pennello: il giovane Lisle infatti è sottile, pallido e floscio esattamente come un vermicello. Era quasi bello, quando studiava all’università, e mi ero presa una piccola cotta per lui, prima di diventare grande e capire che era una cosa impossibile. Ma adesso la sua giovinezza sta sfiorendo molto più in fretta che per altri. La signora Horne, più scontrosa del solito, lancia a me e a Ned un’occhiataccia mentre tiene per mano la piccola Beatrice, la figlia che lady Regina ha avuto quando meno se l’aspettava, essendo già avanti con gli anni. A soli quattro anni Beatrice indossa un cappello di paglia ornato di nastrini che costano più di quanto io guadagni in un anno. — Attenti, voi due. È un onore partecipare a un viaggio come questo, forse la cosa più entusiasmante che vi capiterà in tutta la vita. Quindi cercate di fare bene il vostro lavoro! No, non sarà certo questa l’esperienza più entusiasmante della mia vita, giuro a me stessa. Anch’io ho i miei progetti per il futuro. Progetti più emozionanti di qualsiasi vita la signora Horne abbia mai sognato di vivere. Devo trattenere il sorriso, però. Mi vengono in mente i vecchi ritratti a olio appesi alle pareti di Moorcliffe, gli antenati ammuffiti e agghindati secondo la moda del tempo, imprigionati da cornici che trasudano oro. Il mio viso dev’essere come il loro: sereno e imperscrutabile. I Lisle e la signora Horne non devono sospettare nulla. Io e Ned obbediamo alla Horne e ci affrettiamo dietro alla famiglia: anche noi nient’altro che un’esibizione della loro ricchezza e del loro potere, tanto quanto gli abiti che indossano. Ned è il valletto di Layton, un lavoro che non augurerei neppure al mio peggior nemico, tanto meno a un ragazzo simpatico come lui. Ha un viso lungo e smunto, capelli rossicci e orecchie che assomigliano ai manici di un bricco per il latte, possiede un certo fascino, pur non essendo bello. A causa della vita isolata che conduco a Moorcliffe, Ned è uno dei pochi ragazzi che io conosca e che abbia mai conosciuto. Ma tra noi non c’è mai stato nulla. In tutta onestà, dopo tanti anni di servizio insieme, lo considero come un fratello. Conosco la signora Horne da quando conosco Ned, perciò forse dovrei dire che la considero come una madre. Lei, però, non si sente madre di nessuno. È impossibile immaginare che da una persona tanto arida e deprimente possa nascere qualcosa, o che una come lei possa fare quello che è necessario per avere un figlio. La chiamiamo signora, ma è un titolo onorario: non c’è bisogno di avere un marito per esserlo, basta una certa età. È la cameriera personale di lady Regina e, in sostanza, la governante di Moorcliffe. Nessuno tra la servitù la supera di grado, tranne il maggiordomo, che però è troppo anziano per avere voce in capitolo. Il più delle volte la signora Horne mi terrorizza. Ha un potere assoluto sulla mia vita: quanto cibo mi viene concesso di mangiare, quante ore posso dormire, se manterrò il mio lavoro all’interno della casa o verrò cacciata via a morire di fame. Ma non sarà più così, penso, e mi sforzo di non ridere davanti alla sua faccia grinzosa e compita. Fra una settimana sarà tutto diverso. Man mano che ci avviciniamo, camminare diventa più facile. Siamo riusciti a superare i passanti e i curiosi, ora andiamo tutti nella stessa direzione, verso l’imbarco. La nave ci sovrasta, più alta del campanile di una chiesa, più alta di qualsiasi cosa io abbia mai visto. Sembra più vasta e maestosa dell’oceano color fango. Lady Regina saluta uno dei suoi amici, poi aggiunge in tono fin troppo disinvolto: — Horne, voi tre siete in terza classe. Mi hanno detto che gli assistenti di bordo vi mostreranno il percorso più veloce per raggiungerci. Io e Ned non possiamo fare a meno di lanciarci uno sguardo costernato, e persino la signora Horne storce le labbra sottili in un tentativo mal riuscito di nascondere la propria delusione. L’ultima volta che la famiglia Lisle ha fatto un viaggio per mare, dieci anni fa, la servitù era in prima classe insieme a loro, con materassi di piume soffici come nuvole, hanno raccontato, e più cibo di quanto ne avrebbero mai visto su una tavola in tutta la vita. Avevamo sperato nello stesso trattamento. C’è chi fa viaggiare la servitù in seconda classe, ma la terza è inconcepibile. — Ci rinchiuderanno là sotto con un mucchio di maledetti stranieri — borbotta Ned. Sembra terribile, attingo a tutte le mie forze per ricordare quanto poco me ne importi.
Layton saluta gli amici che si avvicinano, senza dubbio compagni di viaggio. Avranno parecchi giorni sull’oceano per parlare, ma naturalmente sentono il bisogno di scambiarsi fin d’ora ogni sorta di convenevoli. Mi fanno male le braccia e desidererei tanto appoggiare a terra le cappelliere, finché aspettiamo. Irene non ci vedrebbe nulla di male, ma la signora Horne non me lo permetterebbe. Faccio appello ai muscoli che mi sono cresciuti dopo anni passati a strofinare pavimenti. — Posa quelle cappelliere, Tess — dice a quel punto lady Regina. — Ci penserà la Horne. La signora Horne sembra contrariata, forse perché adesso deve badare a una bambina piccola e anche a quattro cappelliere. Obbedisco subito e mi preparo a ricevere qualsiasi richiesta lady Regina abbia in mente, perché non è certo possibile che voglia semplicemente lasciarmi riposare. L’unica ragione per cui mi fanno interrompere un lavoro è per affidarmene un altro. Lady Regina schiocca le dita rivolta a uno dei facchini che ha assunto per aiutare a trasportare i bagagli, e che mi consegna una cassa di legno intagliato più pesante di tutte le cappelliere messe insieme. Che ci terranno mai dentro? Riesco ad afferrare le piccole maniglie di ferro, anche se il metallo ritorto mi preme così forte sul palmo delle mani da farmele bruciare. — Sì, milady? — dico. Le parole mi escono a stento per la fatica. Ieri notte ero troppo turbata dallo strano episodio del lupo per riuscire a dormire bene, e oggi la stanchezza affiora prima del solito. — Questa dev’essere subito sistemata nella nostra suite — ordina lady Regina. — Non mi sento tranquilla a lasciarla sulla banchina così a lungo, c’è in giro gente poco raccomandabile. Gli assistenti di bordo ti indicheranno la strada. Abbiamo chiesto di avere una cassaforte nella cabina; è lì che dovrai metterla. Non lasciarla su un tavolo. Mi sono spiegata? — Sì, milady. — Non è previsto che io le dica altro, a parte “sì” e “no”. Lei mi squadra dall’alto in basso. È una donna avvenente – capelli castani lucidi, naso aquilino – di una bellezza intensa che non ha certo trasmesso alla figlia maggiore, piuttosto bruttina e dall’aspetto insignificante. — Non mi piace l’idea di mandarti da sola — aggiunge bruscamente. — Ma non credo che tu riesca a portare tutte le scatole di Ned, e poi… non proverai a scappare, vero? — No, milady. Arriccia le labbra carnose in un sorriso sprezzante. — Confido nel fatto che tu sia meglio di tua sorella. È come ricevere una doccia improvvisa di acqua bollente, o come essere sbattuta fuori in mezzo a una tormenta di neve in un giorno d’inverno particolarmente gelido: qualcosa di così scioccante che il corpo non sa bene come reagire. Mi brucia la pelle per la rabbia e sento la bocca riarsa. Quanto mi piacerebbe strapparle via quel cappello a tesa larga, pieno di piume e fiori di seta. E insieme anche i capelli. — Sì, milady. Mentre mi allontano, avverto una strana paura, come se improvvisamente fossi tornata nel vicolo della notte scorsa. È piuttosto improbabile che un lupo si aggiri proprio qui, tra la folla pronta a imbarcarsi. Eppure un formicolio mi attraversa il collo e la schiena, come immagino possa accadere a un coniglio che sa di essere osservato da un predatore. Il peso della cassa tira le articolazioni delle braccia, ma ne vale la pena, pur di starmene un po’ per conto mio. O almeno così mi dico. In realtà ho paura di trovarmi sola in mezzo a questa folla: più persone di quante ne abbia mai viste in un solo luogo, tutte che spingono e spintonano. E poi non so bene dove devo andare. C’è un accesso per i passeggeri di prima classe e un altro per quelli di terza, che portano a ponti opposti della nave. Guardo il mio fardello. Chi conta di più: io o gli oggetti personali dei miei padroni? E allora lo sento di nuovo, quel formicolio alla nuca. Gli occhi del cacciatore sulla preda. Mi volto, aspettandomi di vedere… cosa? Il lupo della sera prima? Il giovane che mi ha salvato e poi mi ha detto di scappare via? Non riesco a vederli in quella ressa. Eppure sento che qualcuno mi sta osservando. Dentro di me, nel posto che non risponde alle regole del pensiero o della logica e che è solo istinto, io so che c’è. Qualcuno in questa folla di estranei mi sta scrutando. Qualcuno mi sta dando la caccia. — Vi siete persa, signorina? — mi chiede un uomo dall’aria cordiale, con le guance rosse e gli occhi azzurro cielo. La sua voce mi fa trasalire, ma per fortuna interrompe i miei pensieri. Indossa quella che credo sia un’uniforme da ufficiale, quindi non riesco proprio a capire perché si rivolga a una come me. — Devo portare questa alla cabina dei miei padroni — rispondo. — Sono al servizio della famiglia del visconte Lisle. — Allora dovete andare in prima classe. — Ma io viaggerò in terza. Aggrotta la fronte. — Un po’ spilorci, non è vero? Dovrei sentirmi offesa per il fatto che abbia mancato di riguardo alla famiglia per cui lavoro. Invece stento a soffocare una risata. — So che deve sembrare insolito. Il problema, però, è che ora non so da che parte imbarcarmi. — Prima classe, credo. Ora che ci penso, mi pare che l’assistente capo ne stesse parlando poco fa… Vi faranno avere le chiavi, in modo che possiate muovervi più agevolmente. Insolito, sì, ma niente lo è mai troppo per la famiglia di un visconte. La punta di sarcasmo nella sua voce è abbastanza lieve da lasciarmi decidere se ignorare la battuta o riderci su, a mia scelta. Preferisco ridere. — Gli assistenti di bordo vi indicheranno da che parte andare una volta sulla nave. Siete sicura di farcela da sola? Non volete che la porti uno di loro? Sembra pesante, per voi. È la cosa più carina che mi sia stata detta ultimamente, e sono sorpresa di sentire un nodo in gola. Ma so qual è il mio dovere; conosco quali ripercussioni potrebbe avere una decisione sbagliata. — Milady vuole che la porti io personalmente. Grazie lo stesso, signore. Si tocca il cappello prima di allontanarsi con passo deciso. Mi affretto verso la passerella di prima classe, sperando che chiunque mi stesse fissando sia in terza. Uno straniero, senza dubbio. O forse è stata solo la mia immaginazione, che mi sta giocando brutti scherzi e fa emergere la mia paura. Ho tutte le ragioni per essere nervosa. Questo viaggio cambierà la mia vita per sempre. La passerella di prima classe assomiglia più alla passeggiata di un lungomare: i viaggiatori se la prendono comoda, guardandosi intorno sotto la luce del sole. Le signore si voltano da una parte e dall’altra per mostrare il lato migliore dei loro cappelli a tesa larga, e sorreggono ombrellini di pizzo finemente lavorato che proiettano ombre elaborate. I bastoni da passeggio e le scarpe dei gentiluomini sono tirati a lucido. Potrebbe sembrare una sfilata di moda, se non fosse per i pochi domestici tra la folla, che ansimano sotto i loro fardelli. Ci muoviamo così lentamente che mi arrischio a posare la cassa per qualche secondo. Mentre i muscoli stanchi si rilassano, infilo una mano nella tasca del vestito e afferro un borsellino di feltro che mi sono cucita con degli scampoli. Ho dovuto confezionarlo di notte, e siccome ci concedono solo una candela nella soffitta, non è certo il mio più bel lavoro di sartoria. Ma a parte me, non lo vede nessuno. Sento in mano la pesantezza del feltro. Attraverso il tessuto percepisco il peso delle monete, il profilo delle banconote arrotolate. Nell’ultimo anno e mezzo ho risparmiato ogni centesimo che ho potuto. Mi sono persino tenuta una banconota da una sterlina che ho trovato sulle scale la mattina dopo una cena con tanti invitati: un vero rischio, che avrebbe potuto farmi licenziare all’istante se qualcuno l’avesse scoperto. Ma non è successo. Ho risparmiato abbastanza per sopravvivere un paio di mesi.
Quando questa nave raggiungerà gli Stati Uniti, mi basterà scendere e squagliarmela da lady Regina e dalla signora Horne, e non tornare mai più. Mentre continuiamo ad avanzare a fatica, riprendo in mano la cassa. Sembra persino più pesante di prima, ma posso sopportarlo. La libertà è solo a qualche giorno di distanza. Tutto quello che devo fare è superare questo viaggio, penso, mentre scendo dalla passerella e salgo finalmente a bordo del Titanic.

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