Capitolo 61: Solitudine - ✓

51 7 15
                                    


Il suo corpo era fradicio di pioggia.
Il motorino era stato abbandonato all'entrata a causa del divieto, ma a lui non importava. Era un'abitudine lasciare la moto lontana ed entrare in quelle recinzioni invisibili dalla quale avrebbe voluto perdersi e non tornare mai più. Perciò si incamminò a piedi verso quei piccoli sentieri. Il cielo era buio, i tuoni manifesti. 

Sebbene avesse le cuffie alle orecchie, sentiva ogni boato percuotergli il petto; con le mani in tasca, il cappuccio era rimasto alzato; nonostante non avesse potuto ripararlo a dovere dall'acqua, lo teneva sopra la testa dai capelli bagnati, più mossi del normale, i quali gli ostacolavano la vista, in aggiunta ai vetri degli occhiali colmi di goccioline. I suoi passi sollevavano un po' di acqua; colpivano il pavimento mattonato bagnato con suoni umidi e scroscianti. La testa era rivolta verso il basso, permettendo alla penombra dei lampioni di nascondere totalmente il suo viso, l'espressione, il sangue che era stato sciacquato via dalla pioggia. 

Il posto era desolato; le ore della giornata in cui era sicuro di non trovare nessuno e chiudersi nel suo guscio erano le prime luci dell'alba, la notte e i momenti di pioggia. In quel momento, persino l'ambiente più ostile e più odioso sarebbe stato meglio di quelle quattro mura di casa. Era un belvedere poco conosciuto; la gente era solita visitarlo con i figli, visto il piccolo parco giochi dall'altro lato, oppure chi faceva attività fisica lo sceglieva come palestra all'aperto da fare a corpo libero.

Per lui non era nessuna delle due.

Era solo un luogo pieno di ricordi dove poteva rimanere travolto dalla solitudine, cosicché questa lo divorasse dall'interno. Purtroppo nel mondo non tutto poteva essere lineare. Così come nella programmazione esistevano i bug e i glitch, anche nella realtà capitavano errori, persone che in questo mondo non erano ben accette, fuori posto, senza un carattere buono che potesse essere d'aiuto verso il prossimo. Nei videogiochi si rideva davanti ad un errore o si era talmente frustrati che si lasciava perdere fino a quando esso non veniva sistemato. Era lo stesso trattamento che subiva lui.

O veniva ignorato o veniva preso di mira.
Era sempre la stessa storia, ogni giorno.

Alla CIA nessuno aveva osato avvicinarsi a lui dal primissimo giorno in cui l'avevano sentito litigare con chi lo aveva scelto per quel ruolo, e l'unico che gli era stato accanto per cause di forze maggiori, aveva avuto l'onore di conoscere la sua condanna e di difendersi con la stessa forza con la quale lo avevano fatto tutti gli altri.

Arrivò alla ringhiera del belvedere, dove il panorama di Washington era stato appannato dalla foschia che aveva sollevato la pioggia, rendendo le luci dei pigmenti della tavolozza di un pittore che aveva sfumato con il dito ogni singolo colore. Il fiume collegato al mare era mosso, onde collidevano contro gli scogli, sollevando una schiuma bianca che lui conosceva fin troppo bene. Si posizionò sotto un lampione e voltò le spalle al panorama per appoggiarsi alla ringhiera e scivolare lentamente a terra. 

Sollevò le ginocchia, distendendole di poco, e tese le braccia per posizionare il cellulare in mezzo ad esse.
Rimase in quel modo, senza muovere un muscolo, neanche per tremare dal freddo.
Si lasciò trasportare dalla musica, dalla pioggia, dalle onde, dai tuoni, perdendosi in quel pulsare che aveva invaso la sua guancia sinistra e stava andando allo stesso ritmo del suo maledettissimo cuore.

**

Finalmente aveva iniziato l'università.
Aveva bramato finire il liceo per poter essere indipendente ed evitare di dover andare a lezione ogni fottutissimo giorno per una presenza del cazzo che non avrebbe cambiato per niente il suo rendimento: era solo una questione di condotta, di rispetto. Queste cose non gli erano mai interessate.

MIND OF GLASS: OPERATION Y [REVISIONATO]Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora