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Chiuse la porta di casa in un rumore sordo, serrando gli ultimi deboli sprazzi di sole all'esterno. Le luci erano accese, e dalla cucina proveniva un leggero scoppiettio, come qualcosa messo a friggere da poco. Un profumo vivido le invase le narici, mentre si toglieva le scarpe di ginnastica. Avevano più l'aria di essere due blocchi di cemento che comode calzature. Le posò delicatamente vicino all'uscio e si diresse in sala da pranzo con la sua tipica andatura appuntita. Suo padre era seduto al tavolo, fra le sue mani sfogliava un pesante tomo di qualche maestro dell'orrore giapponese, sorseggiando una immancabile tazza di caffè. Era tanto assuefatto da quella bevanda da non temere assolutamente l'orario. Per quanto ne sapeva, avrebbe potuto berlo anche prima di andare a dormire, e riuscire comunque ad avere un sonno profondo da far invidia a un orso in letargo. Sua madre, invece, si dava da fare in cucina, mescolando insieme gli aromi più disparati. La fragranza delle sue preparazioni si espandeva per l'intera stanza, accarezzando le più profonde voglie della ragazza.

Suo padre si distolse per un attimo dalla lettura e incrociò il suo sguardo. «Bentornata!» esclamò. Poi infilò nuovamente il naso fra le pagine. «Oh, è tornata Natascia?» chiese sua madre, voltandosi verso di lei. «Come è andata con il Dottor De Angelis?» La ragazza sbuffò, le ripeteva quella domanda ogni volta che tornava a casa dalle sue visite. «Come sempre mamma, ha cambiato farmaci anche questa volta» rispose, estraendo dalla borsa la scatola di nuovi antipsicotici per mostrarglieli. Avrebbero presto preso posto nello scomparto dietro lo specchio, insieme a tutte le altre confezioni mezze mangiucchiate. Una collezione da far invidia al migliore degli ospedali.

Il volto della donna si tinse di dubbio sentendo le sue parole «Ancora? Non mi piace come lavora quel medico, ti tratta come una cavia sulla quale provare di tutto» Suo padre diede un paio di colpetti al tavolo con il dorso del libro. Era il suo modo di far sapere a tutti che non era intenzionato a lasciarsi trascinare nella discussione. Una sorta di rituale con il quale si dileguava mentalmente. «Lo fa perché nessuna sembra fare effetto mà. Non piace nemmeno a me, ma è l'unico che può prendermi in cura adesso. Per quanto...»

«Per quanto cosa?»

«Lo sai... credo di non averne bisogno»

Il silenzio calò tra le due, interrotto da altri due colpi di carta. Una maschera di angoscia si disegnò sul viso della donna. «Questo è un pensiero pericoloso Naty» la ragazza strinse i pugni. Ci pensava spesso, tutti credevano che fosse matta, tutti tranne lei. Avrebbe potuto reagire in maniera diversa, cullarsi nella sua follia, usarla come scudo contro l'orrore del mondo, ma questo non era da lei. Natascia era molte cose nella sua vita, un'artista, una sognatrice, un'anticonformista, ma pazza no, pazza mai!

«Non fate che ripetermi sempre le stesse cose, Naty questo non lo devi pensare, Naty questo non lo devi fare. Prendi le medicine Naty» La vena sul suo collo si ispessì, si stava agitando, e questo le dava piacere. Per un attimo era viva. Lontana da quel piattume che era diventata la sua emotività, avvelenata come era da centinaia di sostanze. «Non rispondermi in questo modo, è per il tuo bene, e tu non stare lì a leggere, dille qualcosa!», esclamò la donna. Questa volta suo padre non osò picchiettare il libro oltre. Si limitò ad alzarsi dalla sedia. Con ogni probabilità per proseguire le sue letture in una stanza meno affollata. Sua madre, invece, la osservava con sguardo furente, e le rughe sul suo viso si scavarono per alcuni istanti. «Devi finirla —», un singhiozzo la interruppe. Sì, doveva essere sull'orlo di una crisi di pianto. Una di quella che aveva di tanto in tanto, sola e rinchiusa in bagno. Una di quelle che sua figlia e suo marito facevano finta di non sentire.

Natascia non poté fare a meno di incolparsi, nel profondo credeva di essere la causa di tutta la negatività che le orbitava intorno. Se la sua vita avesse presto una vita normale, a quest'ora starebbe frequentando l'università come i suoi compagni – o in alternativa avrebbe trovato un lavoro. Lei invece non faceva che restare sepolta in casa, circondata dai suoi disegni e imbottita fino alla nausea di medicine. Che razza di futuro stava costruendo? Sicuramente non uno che potesse rassicurare i suoi genitori.

«Mà...», cercò invano di continuare la frase con qualcosa che potesse tirarla sù di morale, ma le parole le restavano incastrate in gola. «Non puoi andare avanti così bambina mia... devi guarire, e devi farlo in fretta» Un brivido percorse la sua schiena. Sua madre aveva toccato un tasto dolente. Le allucinazioni non erano nulla a confronto con la sua paura più grande, ovvero il terrore di rimanere per sempre, agli occhi della società, una povera schizofrenica. Una inferma bisognosa di cure. Non sono pazza, non sono pazza, non sono pazza! Il solo pensiero le trafiggeva la mente, in una ferita incancrenita di dubbi e incertezze.

I muri alle spalle della donna si colmarono di volti deformi. Incastrati. Orribili smorfie di terrore, pronte a strappare il fiato dai polmoni di Natascia. I suoi occhi si spalancarono terrificati dalla visione. La sua gola si fece secca, mentre deglutiva a fatica. Tese il braccio verso sua madre, l'indice le tremava. Lo sguardo della donna si ridusse a due fessure. «Naty, che hai?»

«Mà – c'è qualcosa dietro di te!»

Non appena si voltò quelle entità svanirono, come annichilite dal suo sguardo, difficile dire se avesse fatto in tempo a notarle o meno. «Dimmi che hai visto anche tu!» esclamò Natascia. Sua madre si girò verso di lei, il suo sguardo cupo la tagliava in due. Scosse la testa.

«Prendi le medicine Naty, te lo chiedo per favore», la ragazza indietreggiò. Quei volti erano lì, doveva averli visti almeno di sfuggita. Un altro passo indietro. Che i suoi occhi la stessero ingannando? Ancora un passo. Natascia sbatté la schiena contro qualcosa, sobbalzò. Si trattava di suo padre, teso alle sue spalle, il libro chiuso nella mano destra e l'altra sulla sua spalla. La luce sterile del lampadario si rifletteva nei suoi occhiali. «Non far preoccupare tua madre... tutto questo è per il tuo bene, lo sai»

La testa cominciò a pesargli, e un formicolio la afferrò per le braccia. Non sarebbe riuscita a sopportare quella situazione oltre, doveva andarsene. Scosse la testa, mentre con passi rapidi percorreva le scale diretta verso la sua stanza. Sentì il bisogno di sciacquarsi la faccia. Entrò in camera sua, poi nel bagno. Lasciò scorrere l'acqua per qualche secondo, guardando la sua figura riflessa nello specchio. Lo sguardo vispo, il battito regolare, la sua mente limpida. Non poteva essersi trattato di un'allucinazione.

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⏰ Ultimo aggiornamento: Mar 14 ⏰

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