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Come tutte le mattine da quando John aveva finito la scuola, la sveglia suonò alle cinque in punto. Il ragazzo si alzò controvoglia, mentre percorreva il corridoio diretto in cucina venne assalito dai suoi due cani da pastore: Ash e Crystal. Ash, come sempre, lo spedì a terra, leccandogli il viso. La femmina, invece, se ne stava seduta ad aspettare il comando del padrone.
«Ash, sitzend!» Gli bastò dire semplicemente il comando che il pastore eseguì subito, mettendosi seduto sulle zampe posteriori, con la lingua a penzoloni. Tra i due era quello più giovane e più indisciplinato. Quando riuscì ad alzarsi, li accarezzò entrambi sulla testa e si diresse in bagno per farsi una doccia fredda e riprendersi dal sonno. L'acqua fredda gli scorreva in rivoli lungo la schiena procurandogli i brividi, teneva le braccia tese e appoggiate alle piastrelle mentre la sua mente era a New York, con la persona che gli aveva rubato il cuore...
«John, muovi il culo ed esci da quella doccia! Forza, la colazione è pronta!» La voce squillante di sua madre lo risvegliò dal suo momentaneo stato di trance e, mentre usciva dal box e si annodava un asciugamano in vita, lei irruppe nel bagno.
«John, cosa ti ho detto meno di un... Ah scusami tesoro non mi ero accorta che avessi chiuso l'acqua.» Disse la donna. Sua madre era una signora frizzante, con tanti interessi e impegnata nella sua comunità. Era cresciuta poco lontano da dove adesso sorgeva il loro ranch, con tre fratelli più grandi e scapestrati. John amava profondamente sua madre, era la sua forza.
«

Tranquilla mamma, tutto a posto...» Sussurrò talmente piano che dubitava avesse sentito, ma venne smentito quando la vide avvicinarsi e passargli delicatamente le mani nei capelli come solo una mamma sa fare.
«Ci pensi ancora tanto non è vero? Oh, amore mio... Mi dispiace davvero molto.» Sua madre era sempre stata una persona molto empatica e sensibile, infatti John non si stupì quando vide una lacrima solcarle il volto.
«Mamma, dai, non piangere, ha fatto la sua scelta e io ho fatto la mia, prima o poi riuscirò ad andare avanti, te lo prometto...» Le baciò la fronte stringendo forte gli occhi: parlarne faceva ancora male, nonostante fossero passati quasi dieci mesi da quando era partito.

Uscì dal bagno in silenzio seguito dai due cani, si buttò sul letto e sospirò pesantemente mentre rivedeva mentalmente i propri compiti per la giornata. Si ritrovò a pensare di nuovo a James e a come quel giorno gli disse che se ne andava a New York all'Università. Sperando che potesse fermarlo, gli confessò che lo amava da tempo, lui però fu solo capace di urlagli addosso parole orribili, arrivando persino ad alzare le mani... John riusciva ancora a sentire la sua voce che gli gridava rabbioso.

«Sei un abominio John, non meriti neanche di vivere. Hai condiviso con noi lo spogliatoio e le docce per anni e ne hai solo approfittato, chissà quante volte mi hai toccato mentre dormivo con te o quante altre hai pensato a me mentre facevi le tue porcherie, mi viene da vomitare al solo pensarci. Mi fai così schifo John, così SCHIFO!» Urlò in preda al delirio James, John non riusciva neanche a riconoscerlo, il viso contratto in una smorfia di disgusto e rabbia.
Non capì subito cosa fosse successo, ma si ritrovò a terra con James che lo sovrastava. I suoi pugni sul viso e il corpo facevano male, certo, ma John non riusciva a reagire, era come pietrificato. Probabilmente richiamati dalle urla, alcuni loro compagni di squadra si precipitarono verso di loro. Quando si accorsero di quello che stava succedendo, allontanarono James dal corpo inerme di John. Anche mentre veniva trascinato via lui continuò a urlagli insulti e a scalciare per liberarsi. John aveva gli occhi puntati verso colui per più di dieci anni era stato il suo migliore amico, che ora lo odiava e lo provava ribrezzo per lui. Pensò che non potesse succedergli cosa peggiore che sentirsi rifiutato dall'unica persona potesse capirlo e sostenerlo come un fratello.

Si ridestò dai suoi melmosi ricordi quando sentì una voce sconosciuta in cucina. Si vestì velocemente e asciugò un po' i capelli con l'asciugamano. Mentre entrava in cucina si infilò una maglietta e sentì distintamente qualcuno deglutire rumorosamente. Appena alzò lo sguardo, incontrò un paio di occhi color pece, incredibilmente profondi.
«John, lui è Dylan, ti darà una mano per i prossimi otto mesi con il ranch, mentre io e tuo padre saremo in Europa.» Sua madre aveva sempre idee grandiose. Osservò quel ragazzo e gli sembrò particolare, tutto l'opposto di quello che ero lui: John era introverso, timido, magari anche un po' debole mentre lui era estroverso, socievole con tutti e aveva una forza mentale e fisica non indifferente.
«Ce l'avrei fatta benissimo da solo mamma.» Disse il ragazzo. Prese un sorso di caffè continuando a fissarlo negli occhi: anche se il loro colore era molto scuro, non mettevano soggezione ed erano meravigliosi.
Quando Dylan parlò, però, ruppe la magia che si era creata con quello scambio di sguardi.
«Non dire cazzate, non potresti mai farcela da solo. Un ranch non è facile da mandare avanti, ti servirà qualcuno che ti aiuti, e visto che io ho tanto tempo libero...» Ribatté il ragazzo seduto comodamente sullo sgabello davanti al bancone della cucina. John strinse gli occhi in due fessure, quel ragazzo aveva un viso d'angelo ma una lingua tagliente come delle lame. Dylan accennò un sorriso malizioso e compiaciuto. La convivenza iniziava alla grande.

Don't lie to me, baby.Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora