Il serpente mi ha ingannata,
E io ho mangiato.
†❦
Eva Pavlova afferma d'averla sempre avuta come viziosa abitudine fin da bambina, quella di grattarsi via la pelle lattea dalle lunghe dita, ruvide e raggrinzite come ramoscelli d'un ciliegio morente. In qualsiasi attimo tedioso della sua limacciosa esistenza la si poteva scorgere avvezza a sfregare e strappare, con lo sguardo assente di chi non s'accorge e la cute sciupata maculata di efelidi. Sfregare e strappare, strappare e sfregare. Pallide strisce di carne morta si raggruppavano sovente sulla sua camicetta a fiori, come petali esanimi e molli sgualciti un'ultima volta. Si aggiungevano, poi, le unghie marmoree delle mani e dei piedi. Una dopo l'altra, con cura, rimuovendo la sporcizia e limando ogni arcata sbeccata. Le custodiva, pallide e smunte, ben separate dai resti del derma; lontane, inaccessibili, mai dovevano toccarsi fra loro le cose morte. Dovevano solo star lì, immobili, fisse testimoni che c'era sempre vigore dopo il languore; perché seppur morte lì rimanevano. Indenni e intatte restavano. Altrimenti come poteva ancora vederle? Come riusciva ancora a tastarle? S'interrogava così, Eva Pavlova, ma mai si rispondeva. Si limitava a osservare impotente una parte di lei che avvizziva in una poltiglia opaca, giorno dopo giorno. Si poteva morire solo un po', sempre e solo un po'? Le sembrava di prendersi gioco della morte, a Eva Pavlova. Le si concedeva solo per parti, sfuggevole e riservata e schiva, e le offriva solo le sue collezioni di pelle grigia e unghie di gesso, niente di più. Ed Eva Pavlova afferma che amasse vividamente collezionare.
La neve, evanescente come friabile polvere, era tutto ciò che ricordava dei suoi primi tre anni. Candida e disinvolta, precipitava dalla volta plumbea piovendo in bianchi bioccoli smussati. Sempre si appiccicava, ostica, sui pori della sua pelle, e come forfora s'impigliava fra i suoi capelli, sotto una povyazka azzurra tutta pieghe e ricami. Coi polpastrelli inamidati, Eva Pavlova racimolava ogni singolo fiocco, e lo offriva alla lingua da solleticare. Le piaceva, afferma, assaporare il cielo sulle labbra screpolate dal freddo. Le dava un senso di immortale quiescenza, fra i denti serrati. Sfregare e strappare, strappare e sfregare. Con la lingua ruvida e sinuosa la impastava di saliva, e poi deglutendo ingurgitava. Eva Pavlova afferma che nevicava anche quel giorno, e sbuffi di vento schiaffeggiavano tetri il sole rosso, quando sua madre le si era accostata stringendo ai seni un fagotto di stracci. Lei s'era ritratta di scatto, perché sua madre aveva il naso lungo e delle madri dal naso lungo non ci si poteva fidare, lo sapevano tutti. Ma quell'involucro informe, stretto fra braccia possenti come remi, aveva emesso un vagito strozzato, e un piede di fresca cartilagine, pura e vergine come la neve che lei soleva ingoiare con devozione, era scivolato fuori scalciando.
«Bada bene, moy doch'» le aveva detto la mamma con melliflua mansuetudine. «Guarda cosa ha portato la cicogna stamattina.» E scoprendo il fagotto di pelli, un viso di scarno scheletro aveva socchiuso gli occhi porcini, con una fessura senza denti che gemendo succhiava e succhiava. Eva Pavlova aveva urlato spaventata dal demone in fasce, e s'era ripiegata su sé stessa, ansiosa, grattandosi via la pelle morta. «Bada bene» le aveva ripetuto Duša Savina assuefacendo la voce di cartapesta. «Il suo nome è Georgi.»
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Eva Pavlova
Short StoryEva Pavlova è chiunque e nessuno. Figlia dello specchio, è il riflesso delle vostre idee, l'eco delle vostre congetture e l'ombra delle vostre proiezioni. È un buco nero per l'anima affine al buio e un caleidoscopio per chi vaga su questa Terra lasc...