CAPITOLO 1

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Era notte fonda e lo stavo cercando. Il sentore di muschio di quercia e zampilli di stelle avvolgeva un'infinita distesa di fili d'erba sottili, morbidi e bagnati di pioggia sotto ai piedi scalzi. Il cielo era blu cobalto, saturo di microscopici bagliori eterei che, appena vi puntavi lo sguardo, finivi per confondere con l'oscurità. La magia stava nel guardarli di sottecchi, solo allora le timide stelle prendevano vita. La luna tuffatasi nello specchio d'acqua guizzava tra una piega e l'altra, deformandosi, adattandosi al letto candido che m'invitava silenziosamente a compiere qualche passo in avanti. L'aria fresca viaggiava con dolcezza nel parco, travolgendomi, sussurrando versi sconnessi, soffiando, ritirandosi e alzando la voce. Quando lo vidi, avvertii l'adrenalina crescere e propagarsi nel mio ventre. Mi irrigidii mentre il sangue saliva in un batter d'occhio alle orecchie. Mi voltai a rilento. Incrociai il suo sguardo. Un grido squarciò la quiete dell'oscurità.
Accanto all'uomo che mi fissava senza proferir parola, c'era una bambina in preda alle convulsioni. Mi gettai in suo soccorso, prendendole il volto sofferente fra le mani.
Sussultai.
Ero io.
«Siamo in arrivo a Weatherfield. Termine corsa del treno.» L'annuncio mi fece aprire gli occhi a fatica e inarcai la schiena per sgranchirmi. Avevo passato l'intera durata del viaggio ran nicchiata sul sedile a dormire. Muovendomi, percepii il leggero scricchiolio delle ossa e i muscoli distendersi a poco a poco. Lo stretto corridoio del treno, la moquette nera e i sedili rivestiti in pelle. Era tutto bianco, nero e grigio. Non mi ci sarei mai abituata.
Seduta composta, mi schiarii la voce e afferrai il lembo della maglia per sventolarmi. L'aria viziata iniziava a darmi alla testa. Pensai a mia madre. Quale sarebbe stata la sua reazione al
mio arrivo?
Il suo dolce sorriso contornato da qualche lieve ruga, le iridi scure illuminate per la gioia di rivedermi, la punta di malinconia che sarebbe comunque trapelata dalla sua espressione accogliente... Mi mancava da morire, sebbene nell'ultimo anno avessi dedicato tutte le energie ai miei problemi, dimenticandomi di quanto anche lei avesse sofferto. Ma ciò non significava che non le volessi bene. Tuttavia, io non ero mia sorella. L'empatia e l'altruismo che gli adulti attribuivano alle donne della mia età, già così mature da riempire di orgoglio le loro famiglie, non mi appartenevano. Io avevo sofferto.
Durante la mia permanenza al Mental Green-Easy avevo imparato che quando si soffre, si soffre da soli. Nella solitudine è possibile testare la forza e la resistenza che sono in nostro potere per affrontare le tempeste e uscirne ancora integri. Circondati dalle persone più care, quelle che sono in grado di scaldarci da quando siamo bambini, invece, ci illudiamo di essere al sicuro, ma non è così.
Il dolore è immateriale, nessuno può afferrarlo e liberarcene. La sua presenza si insinua nel profondo del petto, come uno squarcio che ci impedisce di respirare. Dopo più di un anno, però, io a quella ferita mi ero abituata. Avevo imparato a rimanere in apnea così tanto da non temere più di restare senz'aria.
Vissuto il peggio, al male ci si abitua.
Sospirai e mi alzai in piedi per recuperare la mia valigia dalla cappelliera.
«Ti serve una mano?»
Rivolsi uno sguardo dietro di me, verso quella voce, e mi trovai di fronte al petto di un ragazzo che mi fissava imperturbabile dall'alto. La sua figura sfiorava i due metri. Strattonai il mio bagaglio per tirarlo giù e, senza scompormi, accennai un sorriso strafottente a quel belloccio.
«Credo di potermela ancora cavare da sola» risposi, evitando il suo sguardo e tornando al mio posto.
Il ragazzo alzò le mani in segno di resa e poi si allungò verso il suo borsone in silenzio. Io mi strinsi nelle spalle e cercai di spostare l'attenzione altrove, nel tentativo di regolare il battito cardiaco respirando a fondo, finché i miei occhi caddero sull'orologio stretto al mio polso e il suo fastidioso ticchettio riempì il vuoto di quegli istanti.
La pressione si alzò drasticamente, travolgendomi in una cascata di bollore soffocante. La vista si annebbiò e il chiacchiericcio delle persone si attutì. Restammo solo io e il mio respiro affannoso.
Seguì uno scossone, che per poco non provocò la caduta di una signora addosso al ragazzo. Il treno si fermò. Ero arrivata.
Scattai all'istante, non concedendo un singolo attimo di tregua al mio petto schiacciato dal peso dell'ansia. Raccattai la giacca nera e il cellulare, fiondandomi all'esterno del vagone tra uno spintone e l'altro.
«Australia!» Un tuffo al cuore.
Alzai gli occhi. Erano da sole. Mancava lui, ma non sarebbe mai arrivato. Mia madre aveva gli occhi raggianti e le labbra curvate in un sorriso. Era diversa da come la ricordavo: non sembrava più un fiore appassito dalla perdita. Stava bene.
Accanto a lei, mia sorella.
L'ultima volta che l'avevo vista indossava il vecchio maglione giallo di nostro padre e stringeva un pacchetto di fazzoletti fra le mani, il viso paonazzo e gonfio. Questa volta, invece, la sua maglia non aveva colore, e uno spesso strato di mascara le valorizzava gli occhi scuri, contornati da una chioma chiara tenuta a bada da un mollettone. I suoi lineamenti erano diventati morbidi e femminili.
Nonostante fossimo nate lo stesso giorno, eravamo tutt'altro che uguali. Lei non aveva dovuto vivere quel che ero stata condannata a sopportare io. Non che ne fossi dispiaciuta, ma un moto di invidia mi spingeva spesso a chiedermi quanto sarebbe stato diverso, se quella notte, in macchina, ci fosse stata lei al mio posto.
Abbandonai la valigia a terra e corsi nella loro direzione, scaraventandomi fra le braccia delle uniche due persone che mi rimanevano al mondo. Avrei voluto davvero tanto piangere, urlare, gridare a quel maledetto cielo grigio che non mi sarebbero serviti i colori per poter esprimere appieno come mi sentivo, ma rimasi in silenzio.
Mia madre scoppiò a piangere e i suoi singhiozzi emersero nel vociare delle persone che passavano di lì, indifferenti alle sue lacrime. Inspirai l'inconfondibile odore caldo di mamma mescolato al fresco aroma di limone di mia sorella, sentendomi già a casa. Era da così tanto che aspettavo quel momento.
«Oh, mio Dio, sei così...» sussurrò mamma dopo essersi staccata da me e lisciandomi i capelli con tenerezza.
Mentre la mano tremolante di lei mi sfiorava, lo sguardo di Isabel cercava i miei occhi.
Ma l'incredulità dei loro volti era evidente. Si chiedevano: come avranno fatto i medici a guarirla?
Semplice, non lo avevano fatto.
«Le tue lentiggini sono quadruplicate, proprio come mi aspettavo» constatò la mia perspicace gemella, pizzicandomi le guance e cominciando a deformarle a suo piacimento.
Scoppiai a ridere scrollandomi la sua mano di dosso e poi mi riappropriai del mio bagaglio.
«Sono stanca morta, andiamo a casa?» proposi come se nulla fosse, nel tentativo di alleggerire l'espressione grave di mia madre che mi metteva a disagio.
Non volevo che il rapporto tra noi tre cambiasse. Men che meno che provassero pietà per me, non lo avrei sopportato. Il terrore che gli altri mi compatissero era diventato una costante, non riuscivo a disfarmene e preferivo di gran lunga essere odiata al far pena.
«Tu non hai idea del lavoro che ha fatto mamma a casa. Si è assicurata che non ci fosse neanche l'etichetta azzurra del latte a mandarti in pappa il cervello» esclamò Izzy. «Così almeno potrai levarti le lenti e farci vedere i tuoi begli occhi, quando sarai a casa. Ti piace ancora il rosso, vero?»
«Sì, sicuramente meglio del bianco o del nero» bofonchiai seguendo mia madre verso la fine della banchina con mia sorella al fianco.
Nel caos della stazione, uno strano odore di popcorn unito alla puzza di carburante aleggiava nell'aria. Il caramello burroso si confondeva con la puzza di freni usurati, polvere e vernice.
Il bello di trovarsi in un luogo pubblico era che molto spesso, camminando e scontrandosi con altre persone, una scia del loro profumo ti accompagnava durante il tragitto. Quei sentori si susseguivano uno dopo l'altro, ti restituivano una sensazione di labilità. I profumi arrivavano e sparivano.
I passeggeri che erano stati sul mio stesso treno si stavano affrettando a uscire dalla stazione come uno sciame di lucciole impazzite per raggiungere i propri cari il prima possibile. Così, quando il bel ragazzo che avevo incontrato poco prima ci superò, inspirai a fondo. Eppure, non sentii niente.
Con la coda dell'occhio, notai invece Isabel aguzzare lo sguardo. Le diedi una spallata.
«Lo conosci?» domandai con un velo di curiosità.
«Questa città è un buco, conosco tutti. È un tizio che si è arrabbiato con un mio amico, una volta, solo perché aveva rovesciato per sbaglio della pittura addosso a sua sorella. Fai un po' tu» asserì stizzita, con fare disgustato.
Scoppiai a ridere, poi mi mordicchiai il labbro inferiore guardandola contrariata. Avevamo appena oltrepassato l'uscita della stazione.
«Beh, anche io mi sarei infuriata se fosse capitato a te» ribattei.
«Tu non gli avresti spaccato il setto nasale, Australia» obiettò Izzy.
Di fronte all'auto di nostra madre, una ventata di calore mi attraversò il volto. Gli aveva addirittura rotto il naso?
La mia mente, però, si soffermò presto su qualcos'altro. Australia.
Portai una mano al ciondolo freddo che mi ricadeva sul petto e lo strinsi, arricciando il naso. Quel nome non mi apparteneva più.
«A proposito di Australia: non mi chiamare più così, voglio che usi Arabella d'ora in poi» affermai con un pizzico di sgarbo
nella voce.
Izzy mi guardò stranita, corrucciando le sopracciglia. Sbuffai strafottente. Mi avrebbe chiamato Arabella, che le fosse piaciuto o meno. Era il mio nome. Potevo farne quello che più desideravo. Ed era uno dei pochi legami che avevo ancora con il passato.
«Ma tu ti chiami Austr...» tentò lei.
«Non era il nome che lui voleva darmi» ribattei prima che potesse obiettare ancora.
Una scia di calore mi avvolse il collo, risalendo al viso. Mia sorella si zittì, storse il naso e, dopo aver fissato per qualche secondo il cemento sotto ai suoi anfibi, non fece altro che alzare gli occhioni e annuire.
«Va bene, Arabella.»
«Tesoro, sali davanti. Isabel, carica la valigia di tua sorella nel portabagagli» ordinò mamma.
Quando lei si mise al volante e noi ci posizionammo al nostro posto, partimmo.
Il percorso in auto fu più lungo di quanto mi aspettassi. Guardai scorrere con una lentezza estenuante le villette tutte in fila, separate fra loro da basse recinzioni in legno, alternate a piccoli negozietti e vie traverse che conducevano chissà dove. Da quella notte di un anno e mezzo fa, mamma aveva paura di guidare a una velocità maggiore di trenta chilometri orari, il che da un lato era senz'altro rassicurante, ma dall'altro cozzava con la mia smania di raggiungere casa di corsa. Le automobili non mi facevano sentire protetta, ma non volevo farle capire che avevo paura e rovinare quei primi momenti di nuovo insieme. Non avrebbe fatto altro che impietosire ulteriormente mia madre.
Avrei dovuto imparare a vivere soffocando eventuali ricordi spiacevoli, se desideravo il mio bene e quello delle persone accanto a me. Fingi fin quando non ti dimentichi più di farlo e la menzogna diventa realtà! Eppure, per quanto mi suonasse giusta, quell'idea mi agghiacciava. Andare avanti significava superare la perdita. Superare la perdita equivaleva a non sentire più la mancanza, ma era proprio quella a mantenere vivida l'immagine di papà. E io non volevo perderlo. Anche a costo di stare di nuovo male.
Izzy era al cellulare, piuttosto concentrata.
«Cos'è quel sorrisetto da scema?» chiesi guadagnandomi una sua occhiataccia.
«Quel sorrisetto ha un nome» affermò nostra madre alimentando il mio interesse.
«Non cominciare» sbuffò Isabel, spegnendo lo schermo del telefono. «Te lo farò conoscere, un giorno. Vedrai, è fantastico.»
Annuii, mugugnando con falso compiacimento e alzando le sopracciglia. Cadde il silenzio.
«Ha sempre la battuta pronta, se c'è Isaac stai pur certa che ti divertir...»
«Sì, ma non te l'ho chiesto» la zittii «non me ne frega un cazzo di questo fantomatico Isaac.»
Era vero, non me ne importava nulla se quel tipo era la persona più simpatica dell'universo.
Anche se... Isaac? Quel nome non mi era nuovo.
Isaac... Diamine, lo avevo già sentito prima.
Il volto di Rhy balenò davanti ai miei occhi.
«Ti sembra questo il modo di rispondere a tua sorella, Australia?»
Spostai l'attenzione su Izzy, pronta a sbottare, ma vederla seduta con gli occhi fissi sul telefono spento e una smorfia turbata in volto mi fece ritrarre. Ci eravamo appena ritrovate e avevo già rovinato tutto.
Lo sguardo perentorio di mamma mi bruciava addosso come carbone rovente e il silenzio di Isabel rincarava la dose. Perché le avevo parlato così? E soprattutto di una cosa che la rendeva tanto felice.
Il fatto che io stessi male non era un motivo valido per trascinare anche lei nel vortice di dolore che mi tormentava. Vedere gli altri sistemare i pezzi della loro vita mi faceva soffrire, sì, perché sapevo che io non sarei mai stata in grado di farlo, ma non era giusto cercare di abbattere chi era andato avanti.
Mi sporsi verso di lei per poggiarle una mano sulla spalla, ma le parole non mi uscirono. Quella stupida parolina che tutti sapevano pronunciare tranne me. Izzy posò la mano sulla mia e la strinse. Sorrisi e lasciai andare la presa.
Tornai con lo sguardo sul finestrino, a contemplare la città che da quel giorno avrei dovuto considerare mia.
Rhy mi aveva parlato spesso di Weatherfield, nel periodo in cui ero stata con lui alla clinica, o meglio al Laboratorio di ricerca per la cura di patologie mentali poco diffuse. Il Mental Green-Easy Institute. Era stato proprio in ospedale che l'avevo conosciuto. Senza Rhy Evans, probabilmente non avrei potuto superare il percorso a cui ero stata sottoposta contro la mia volontà. Era diventato un porto sicuro, eppure avevo dovuto rinunciare a lui per tornare con i piedi per terra e rientrare a tutti gli effetti nel mondo delle persone comuni.
A darmi forza, c'era l'idea che presto l'avrei rivisto in città. Ero sicura che sarebbe successo, perché sapevo che abitava anche lui a Weatherfield e che sarebbe stato dimesso pochi giorni dopo di me, al massimo nel giro di qualche settimana.
L'auto si fermò.
«Siamo arrivate» annunciò mamma, estraendo le chiavi e spalancando la portiera.
Non resistetti un secondo di più: sgusciai fuori dal veicolo e mi piazzai di fronte a quella piccola abitazione dalle mura in mattoncini che si ergeva tra la boscaglia rinsecchita. Le lenti non mi permettevano di distinguerne il colore, e forse non lo avrei mai scoperto, ma non era un problema. Non mi importava.
Quello era l'inizio di una nuova storia, magari era giusto che fosse in bianco e nero, sarebbe stato presuntuoso volere di più.
Il giardino che circondava la casa non era maestoso come gli alberi e le aiuole delle ville che avevo osservato durante il tragitto in auto, ma andava bene così. Non osavo nemmeno immaginare i sacrifici che mamma aveva dovuto fare per comprare una casa del genere. Per quanto piccolo, quel luogo sarebbe diventato in ogni caso il mio rifugio, un posto nel quale nascondermi al sicuro da tutto.
Avanzando di qualche passo, continuai a ispezionare. Ai lati dell'entrata vi erano dei piccoli cespugli di fragoline. Gli stessi che avevamo prima, nella vecchia casa. Mamma non ci aveva rinunciato. Deglutii con difficoltà il groppo in gola e serrai le palpebre. Non era il momento di entrare nel panico. Andava tutto bene. Non sarebbero state delle stupide piante a farmi crollare. Non lo avrei permesso. Digrignai i denti. Riaprii gli occhi.
«Vi siete ambientate bene qui?» domandai voltandomi verso mia madre.
Lei fece cenno di sì con la testa, mentre aiutava Isabel a tirare fuori la mia valigia dal bagagliaio.
«Da qui siamo abbastanza vicine agli ambulatori dei dottori. Possiamo arrivarci in un attimo, in qualsiasi momento. Per ogni evenienza...» spiegò.
Annuii in silenzio, serrando i pugni e sforzandomi di sorriderle.
Quando finirono con la valigia, seguii mia madre sul piccolo sentiero e salii i tre gradini di fronte al portone. Una volta aperto, entrai dopo lei e mia sorella e rimasi sulla soglia con lo sguardo a mezz'aria.
Bianco, grigio, nero.
Diverse tonalità, ma sempre gli stessi colori. Non vi era altra scintilla a dipingere l'atmosfera, niente di niente.
L'ambiente si apriva su un piccolo salottino, composto da due divani imbottiti malridotti, un televisore, un armadietto basso e un tavolino sul quale erano sparsi fogli, cartacce e penne varie. Sopra l'ammasso di scartoffie, una piccola tela. Mi avvicinai mentre le lacrime iniziarono a farsi spazio per l'emozione. Disegnato a matita, c'era un occhio decisamente sproporzionato. L'iride era più sfumata, di un colore grigio che si schiariva verso l'esterno, fino a scomparire a contatto con la palpebra ben delineata. Le ciglia erano lunghe e le pupille di un nero carbone intenso, a sottolineare quanto fossero dilatate in modo anomalo. Era mio. Quel disegno era opera mia.

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⏰ Ultimo aggiornamento: Jun 01, 2024 ⏰

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