#PROLOGO

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Driiin, driiin. Il suono della campanella proruppe nei taciturni corridoi della scuola. Prima la calma, poi il chiasso.

Driiin, driiin. Prima le assistenti scolastiche se ne stavano comodamente sedute ad ammazzare il tempo con gossip becero e battute politicamente scorrette, poi si ritrovarono a rincorrere ragazzetti scatenati e schiamazzanti che correvano verso l'uscita. This is highschool, man.

Driiin, driiin. La campanella continuò a fare la voce grossa, liberando i ragazzi dall'agonia di ascoltare un vecchio prof annoiato dalla vita che si limitava a leggere il libro di testo.

Le porte delle aule prima chiuse, poi spalancate di botto. Una marmaglia di studenti si scagliò fulminea fuori dalle classi puzzolenti e malconce, per attraversare i corridoi ancora più fulminea, aprire i propri armadietti scassati e tappezzati di adesivi e, dopo aver preso l'essenziale, dirigersi sempre più fulminea verso il cortile, il cancello, la strada.

La libertà che gli studenti mordevano avidamente al termine di qualsiasi altro giorno di scuola non avrebbe potuto essere messa a paragone con quella che ammantava l'aria quella fatidica giornata di giugno. Era l'ultimo giorno di scuola del 1998. L'estate stava per cominciare. Niente più compiti, verifiche, mamme furiose che inveivano per la pigrizia dei figli nello studio, schoolbus in cui salire alle 7.30 appestati di ormoni fluttuanti, professoresse inacidite e per nulla rassegnate a invecchiare! Che abbia inizio la festa: cotte estive, bravate notturne, cannoni d'erba lunghi come razzi della NASA, vacanze chissà dove («ancora con i genitori, uffa!»), campeggi e falò romantici.

Crani rasati, creste selvagge, capelli legati in codini fatti di fretta e ricci sbarazzini risaltavano tra le acconciature che sfoggiavano questi boys and girls in uscita dalla scuola superiore; per non parlare dell'abbigliamento, come tute extralarge, t shirt con stampe usurate, jeans strappati, giacchette borchiate, scarpe Adidas total white o Converse dai lacci logori e scoloriti. Alcuni di loro con in mano i primi cellulari, scomodi e macchinosi. Sono questi ragazzi dai 14 ai 18 anni che popolavano l'edificio asettico, colosso che spiccava imponente in mezzo ai quartieri residenziali americani. Alcuni di loro intonavano un inno a squarciagola, festanti e spensierati: «Siamo fuorii, siamo fuorii, we're free

Un po' alla volta l'orda assembrata fuori dai cancelli si diramò e rimpicciolì, e rimase qualche piccolo gruppetto a scambiarsi gli ultimi commossi saluti. Senza gli studenti che l'animavano, la scuola si addormentò e cadde in un lungo letargo. Dopo aver accolto centinaia di smorfiosi per parecchi mesi, aveva portato a termine il proprio compito: far da casa per un altro anno alle giovani generazioni (oltre a non crollare, chiaramente). I ragazzi che regolarmente frequentavano l'highschool[1] dal giorno successivo si sarebbero potuti inserire in queste tre categorie:

-I responsabili, coloro che avrebbero cominciato subito i compiti per le vacanze o che avrebbero lavorato in qualche bar con l'intento di metter da parte dei soldi per l'anno seguente. Prima il dovere, poi il piacere!

-I perditempo, scorti in giro per la città a cazzeggiare e divertirsi. Con buona pace dei genitori...

-Gli svogliati, quelli che avrebbero preferito restare chiusi in casa ad annoiarsi e a lamentarsi del troppo caldo.

Jeff apparteneva a quest'ultima categoria.

[1] Le scuole superiori americane.

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