Capitolo 1

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Il problema di essere uguali davanti alla corona non risiede nella parità o nei soliti pregiudizi in cui si può ricadere, ma nelle preferenze; infondo, tutti hanno delle preferenze. Più la Regina invecchia, peggio è. Fino all'altro giorno, non si sarebbe mai permessa di fucilare o mutilare i propri sudditi, non dopo che l'abbiamo sostenuta in battaglia per oltre un secolo, nella famosa lotta dei duecento anni contro i suoi avversari, i Charms.

L'uomo combatte essenzialmente per tre grandi ragioni: soldi, armi e amore. Non guardate la nostra regina come un despota senza cuore, anche se di quest'ultima è letteralmente priva. Infondo, ci ha salvato la vita anche quando avrebbe avuto ogni motivo per sterminarci dal primo all'ultimo. Forse strapparle la figlia ancora in fasce per vendicare un torto di denaro non fu l'idea del secolo.

Qui non si bisbigliano i loro nomi per le strade; nessuno si permette neanche di nominarli, tanta è la paura che incutono. Parlo dei Sanguinari: nelle loro vene scorre troppo sangue, i loro cuori battono come il ritmo di una batteria, hanno occhi di diversi colori e folti, lunghi capelli. Ci credo che esista discriminazione verso di loro. Noi Mangiacarne siamo tutti uguali: alti, con occhi rossi, capelli scuri e una carnagione talmente bianca da vedere le vene nere prive di sangue. Non abbiamo un cuore, almeno così viene raccontato nei grandi libri. In realtà, fisicamente ne abbiamo uno, ma esso non batte, e ci viene cavato all'età di otto anni. I nostri riti di passaggio sono piuttosto strani: per poter essere uno di noi devi mangiarti il cuore morto. Una cosa macabra e parecchio schifosa, ma non ci insegnano la decenza e l'educazione. Non siamo mica come i Sanguinari, belli da farti girare la testa e pronti a pugnalarti alle spalle.

So di avervi estremamente confuso le idee; lasciatemi spiegare passo passo tutto quanto.

Mi chiamo Asterope e appartengo alla casata dei Mangiacarne. Le casate principali sono ormai due, ma in principio erano tre: Charms, ormai sterminati, Mangiacarne e Sanguinari. La casata degli Charms viene così definita perché basavano tutto il loro sistema economico e di ricchezza sul possesso ossessivo di charms; più ne avevi, più eri ricco. Non si dividevano in classi sociali e prendevano decisioni riunendosi nell'antica piazza della cittadina, scegliendo per alzata di mano. Ovviamente, avevano leggi in grado di punirli o addirittura ucciderli. La loro dinastia principale, la casata regnante, erano i giudici che decidevano della vita delle persone. Non c'era da meravigliarsi se dopo poco tempo tutti i giudici e i ministri provenivano dalla stessa famiglia. Appesi alle loro corti d'appello c'era scritto: "Chi compie, ripaga", un motto apparentemente innocente, ma che sfociava spesso in violenza. Ovviamente la loro casata principale portava come colore l'oro degli charms, che sottraevano durante i processi. Ogni scusa era buona per processare e uccidere un innocente. Vennero tutti sterminati dalla regina dei Sanguinari quando scoprì che la culla della sua piccola neonata era piena di sangue e di lei rimaneva solo una ciocca di capelli. Gli ultimi di questa casata oggi sono giudici che impongono leggi.
Testi affermano che la loro pelle era talmente pulita da luccicare come l'oro, i loro occhi gialli affilati e pungenti come quelli dell'animale sul loro stendardo ocra, un gatto. I loro capelli variavano dal biondo cenere al biondo più pulito, probabilmente a causa dell'aconito giallo, un fiore che tanto amavano mangiare. Se ne trovavano a bizzeffe nei loro territori. Inizialmente usato come veleno contro le belve feroci, divenne una medicina per i malati di peste e poi parte della loro cucina.

Ero ancora in fasce quando nacque il primo erede a possedere il sangue di due casate tra loro così diverse, quella dei Mangiacarne e quella dei Sanguinari. Il suo nome è Dravall, e anche se non si direbbe, esteriormente appare come un Mangiacarne: occhi rossi, capelli color cioccolato lunghi fino alle spalle, carnagione bianca come se non avesse mai preso il sole, e un cuore vivo pulsante in corpo. La prima volta che lo vidi era alla Locanda, chiamata da tutti il Miele. Aveva la mia stessa età, quattordici anni. Era accompagnato dalla sua guardia del corpo fidata che, rispetto a Dravall, sembrava un gigante. Le parole che gli rivolse erano cordiali e gentili: "Dovete scegliere la donna che volete." Con un urlo, il soldato chiamò a sé tutte le donne, me compresa, e ci mettemmo in fila. "E se non volessi una donna?" Nascondo il sorriso nascente, dovuto dalla battuta del piccolo principe. "Allora, ne pagheremo una per attestare il falso davanti a vostra madre." Gli occhi vispi e gioviali di Dravall percorsero l'intera fila per almeno tre volte, poi alzò il braccio destro e puntò il suo dito indice contro di me: "Scelgo lei."

Non so dirvi se questa fu la mia fortuna o sfortuna, so solo che è da ben oltre dieci anni che Dravall richiede la mia presenza ogni venerdì sera. All'inizio era rude: appena finiva, si rivestiva e mi abbandonava nuda sul letto bianco. Col passare degli anni divenni la sua più stretta confidente. Mi definiva la donna incapace di essere creduta, perché sapeva che, anche se avessi parlato, nessuno mi avrebbe creduta, e mi avrebbero uccisa all'istante. Essere l'amante del principe diventava sempre più complicato. Le altre donne bisbigliavano al mio passaggio, mi lanciavano occhiate di fuoco e non perdevano occasione di insultarmi.

La sua prima confessione riguardava un litigio con un cavaliere della guardia cittadina: "Mentre venivo qua, Sir Rye mi ha impedito di vederti. C'è qualcosa che devo sapere?" Non sapevo nemmeno chi fosse quel tale, e per la prima volta mi feci coraggio e risposi: "Non ho idea di chi sia." La mia voce era tremolante, non avevo mai parlato con un principe. Finalmente, dopo mesi, si decise a chiedermi il mio nome. Ricordo quel momento come se fosse avvenuto ieri: "Come ti chiami? Sono tre anni che vengo qui, eppure non so il tuo nome." Lo osservai con occhi straniti, "Asterope" risposi lentamente, scandendo ogni lettera. Dravall se ne andò via dalla locanda ripetendo il mio nome come se fosse un bicchiere di vino squisito.

Il momento più intimo che condividemmo avvenne solo cinque anni dopo esserci incontrati. La sua testa si sdraiò sul mio petto, proprio dove avrebbe dovuto esserci il mio cuore. Il contatto con i suoi capelli mi fece rabbrividire e scaldò il mio corpo.

"Come fate a vivere senza cuore?" la sua voce roca e stanca giunse nelle mie orecchie. Lo osservai: sembrava un bambino esausto, con gli occhi chiusi in procinto di dormire. "Si vive lo stesso, non è la parte principale del nostro corpo" risposi chiudendo gli occhi anch'io. "Ma..." Dravall si spostò, alzò la testa per guardarmi in faccia. Non si aspettava che una meretrice potesse interromperlo mentre parlava. "Non esiste un ma o un se. Ogni tanto neanche voi sentite il vostro cuore. Noi ci siamo abituati." I suoi occhi rossi si scurirono, e non per la rabbia, ma per compassione: "Vuoi sentire il mio cuore?" Fu strano sentire con le proprie orecchie un rumore cullante da cui dipende la loro vita. "Qual è la parte più importante del vostro corpo?" mi chiese il principe, mentre mi passava le dita tra i capelli. "L'anima. Nessuno vive senza di essa. Tutti i cuori sono identici, quel piccolo soffio vitale ci rende unici."

A diciotto anni, Dravall iniziò a comportarsi in modo strano: ogni volta che giacevo con lui nel letto, era curioso di sapere chi fosse il mio prossimo cliente, e quando raramente facevo il suo nome, Dravall assumeva espressioni facciali indicibili e, stranamente, il mio cliente non si presentava. Sembrava essere geloso di me. Anche io cominciai a sviluppare una sorta di attaccamento morboso. Mi regalò uno specchio piccolo, poiché non ne avevo uno nella stanza. Lo custodivo gelosamente e non me ne separavo mai, temendo che le altre potessero rubarmelo. Una volta litigammo pesantemente; non ci urlammo addosso, ci bastava guardarci negli occhi per capire se qualcosa non andava. Quel giorno mi permisi di esprimere la mia opinione sulla sua vita, in particolare sul suo matrimonio con lady Chloe. Quest'ultima apparteneva alla nobiltà dei Sanguinari, e al di là del fatto che tale unione serviva solo a rafforzare la casata, Chloe non avrebbe mai reso felice Dravall. Alex, un mio compagno di lavoro, mi comunicò che lady Chloe si era presentata una sera e lo aveva minacciato di morte se non le avesse rivelato chi rubava cuore e anima del principe.

"Non puoi sposarla!" gli dissi convinta. I suoi occhi rossi mi perforarono l'anima, le sopracciglia corrugate: "Non è che posso, devo. Questi sono gli ordini della corona" il suo tono di voce rifletteva una profonda frustrazione. "Tra la corona e la libertà, tu cosa scegli?"
"Io scelgo te, come ho sempre fatto. Ma sei talmente accecata dal tuo lavoro di merda da non rendertene conto. In fondo non sei altro che una puttana, cosa ci si può aspettare da te." Si rivestì alla velocità della luce, senza mai guardarmi in faccia. Le ultime parole che sentii furono: "Per ora non ti voglio più vedere."

Non lo rimpiansi, almeno non subito. Quell'aggettivo rozzo con cui mi aveva etichettata non era altro che la mera realtà. In fondo, non posso capire la sua maniera di superare gli ostacoli. Dravall vede il suo matrimonio come un obbligo impostogli dalla corona. Se solo si rendesse conto che è lui a dettare le leggi della sua stessa vita, non diventerebbe la marionetta di sua madre.

Quel venerdì Dravall non si presentò nel mio letto, ma in quello di Alice. Il giorno dopo sbandierava l'accaduto a tutti nella locanda. In quel preciso momento mi sentii sola come non mai. Il principe, in tutti questi quattro anni, era diventato ben più di un semplice confidente, di una spalla su cui piangere e di un migliore amico. Eravamo amanti, e questo mi spaventava più di qualunque altra cosa.
Era un venerdì sera, avevo capito che il principe era arrabbiato con me e non sarebbe venuto. Così mi sistemai i capelli in tante piccole treccine, utilizzando lo specchio di Dravall. All'improvviso sentii la porta d'ingresso sbattere e poi lo vidi ansimante, rosso in volto, con le lacrime che gli fuoriuscivano dagli angoli degli occhi. Mi si seccò la gola: "Cosa... è successo?" bisbigliai. Dravall cadde in ginocchio, testa bassa, con le mani che tremavano freneticamente: "Io... io l'ho uccisa..." la sua voce era incrinata dal pianto. "Chi hai ucciso?" la mia testa sembrava avesse smesso di funzionare. "Chloe." Mi avvicinai, sollevai la sua testa con le mani a coppa e gli baciai la fronte. Poi baciai le sue lacrime copiose, che ancora scendevano sulle guance rosse. Gli accarezzai i capelli dolcemente, lo abbracciai e lo cullai per tutta la notte.

Solo il giorno dopo mi confessò tutto: "Non ho scopato con Alice, l'ho pagata affinché lo dicesse in giro" si arrotolò una ciocca dei miei capelli marroni cioccolato sul dito indice. "Mi sembrava strano, dopo un rapporto mi chiedi sempre di lavarmi" tirai su la coperta per coprirci meglio. Lui sorrise: "Se solo questo quartiere sapesse che tu sei la mia amante... saresti già morta da un pezzo." È la triste verità di chi, come me, lavora nel quartiere del miele. La sera è piena di persone che confabulano stratagemmi per uccidere, chi ruba chiunque passi e chi ti stupra. "Ho nascosto il cadavere sottoterra nelle nostre catacombe, e ho usato lo stratagemma del veleno di aconito giallo." Mi accoccolai e lo strinsi a me più forte: "Ci saranno delle ripercussioni, lo so... ma... ma io non volevo sposarla" gli accarezzai i capelli lentamente; "Sei il principe, tu puoi tutto."

Sono passati esattamente cinque anni da quella notte, e nonostante i sensi di colpa ancora lo assalgano, ha capito come funziona la vita di corte. I suoi modi di fare dopo quell'evento sono diventati estremamente raffinati ed eleganti, sembra essersi perfettamente conformato alle regole della corona.
"Ognuno di noi ha un destino già scritto, Asterope. Il mio è quello di diventare re. Non posso comportarmi come un ragazzino di diciotto anni, che uccide la propria sposa. Adesso, sono un re, non ancora, ma basta con le fantasie."
"Qualsiasi cosa sia, non mi abbandonare."
Quella risposta mi era uscita naturale, avevo annuito distrattamente e me ne ero andata via dalla stanza. Non concordo con te, Dravall, ma come al solito sei tu il principe e io nessuno. Nella vita sono sola, l'unica persona che ho accanto sei tu, non mi abbandonare.
Mi alzo stanca dal letto bianco, più stanca di prima. Intercetto con lo sguardo il mio vestito rosso, lo raccolgo e lo indosso. Mi muovo lentamente, evitando di fare rumore. Ho assolutamente bisogno di un bagno, devo levarmi l'odore dell'uomo che mi porto addosso.

"Dove vai?" La sua voce appena sveglia mi raggiunge. Mi volto verso il letto, ed è seduto con il lenzuolo che gli copre i fianchi e le gambe. Si stropiccia gli occhi rossi e sistema i suoi folti capelli color cioccolato. Eccolo, il principe, futuro erede al trono, appartenente alle dinastie dei Sanguinari e dei Mangiacarne: Dravall.

"Mi devo lavare" gli rispondo, evitando di guardarlo negli occhi.

"Hai addosso l'odore del Principe, io fossi in te ballerei sui tavoli per tutta la sera." Mi sorride in maniera genuina, sapendo perfettamente che non sono il tipo di donna in grado di mettere in evidenza i miei potenziali. Fin da bambine ci insegnano, a noi della locanda, a stare zitte e obbedire agli ordini, poiché anche un solo rifiuto comporterebbe un mancato profitto. È vero, non ci insegnano il rispetto reciproco tra noi meretrici, né una forma di supporto, ma espormi così tanto, affermando di essere l'amante preferita del principe, è un passo azzardato.

"Sai che non posso." Lui sbuffa al solo udire le mie parole, ributtandosi con le braccia aperte sul letto. "Dovrei combattere con mio fratello Tallen, ma non ne ho voglia. Poi dovrei subirmi mia sorella Zonta parlare del nostro matrimonio. Che vita difficile!" Si lamenta, passandosi una mano sul volto stanco. Improvvisamente, però, sembra destarsi. Alza il capo, mi squadra con gli occhi: "Scusami, in effetti non posso lamentarmi." Sorrido alla sua risposta, mentre comincio a cercare i suoi vestiti. Non che io voglia mandarlo via, ma devono arrivare altri clienti. Dravall sembra rendersene conto: "Chi hai dopo di me?" Questa non è la prima volta che sento questa frase. Ogni volta dopo essere stata con lui, mi domanda sempre la stessa cosa, e pretende che prima di andare insieme a lui io mi lavi, come se gli trasmettessi malattie.

"Non lo so, non ho mica un carnet di ballo con su scritto tutti quelli che mi scoperanno" gli rispondo, e lui ride di cuore. Ogni tanto penso che lui sia folle. Ripongo il suo vestito ordinato sul letto, proprio sotto i suoi piedi. "Posso dirtelo: ti amo sinceramente, non solo il tuo corpo, ma la tua anima. Le tue risposte di merda, i tuoi modi di fare a tratti poco affini con i miei. Il tuo essere elegante pur non essendo una donna di corte. Con te posso parlare liberamente e non sento il peso della corona. Sei il mio amore impossibile, ma allo stesso tempo possibile. Io ci tengo a te, ed esigo che tu te ne vada da qua."

Per un istante temevo di mettermi a piangere. Gli occhi mi pizzicano davvero tanto, e un misto di emozioni smuove il mio animo: gioia, nostalgia, tristezza, amore e speranza. Non so se sia possibile, ma è come provare dolore e amore allo stesso tempo.

"Lo sai che non posso." La mia risposta breve lo ferisce, lo si vede da come i suoi occhi rossi si scuriscono. "Diventa la mia donna personale." Si alza e si mette seduto. "Tu pensi che sua Maestà la regina accetterà?"

"Sai quante puttane aveva mio padre? Sono il futuro re, io posso tutto."

"Mi scusi, sua Maestà." Feci un inchino teatrale, senza staccare i miei occhi dai suoi. Dravall si alzò dal letto con un balzo e infilò i pantaloni. Prese dall'appoggia ombrelli la spada d'argento abbandonata. Mi porse il manico, e io la afferrai. Magari ha bisogno che io gliela tenga, affinché riesca a vestirsi senza impedimenti. "Per venire a corte devi saperti difendere da sola."

Spero stia scherzando, rido leggermente, e Dravall si innervosisce: "Sono serio, alle puttane non danno guardie che le sorveglino."

"Ma tu sei il principe, e puoi tutto" risposi abbassando la lama della spada verso le travi di legno scricchiolanti del pavimento vecchio. "Vero" lo dice come se avesse appena avuto un'illuminazione divina. Afferra dalle mie mani la spada, la inserisce nel fodero dei suoi pantaloni. Gli porgo la camicia bianca e la indossa. Lo guardo tastarsi le tasche sui fianchi e tirare fuori due monetine d'oro. Ingoio la bile che trattengo in gola, e gli porgo le mani tremanti. "Non mi guardare così, come se ti stessi bastonando. È una mia etica di principio: ti devo pagare." Non lo fa con cattiveria, è il suo modo per esprimermi gratitudine, per comunicarmi che non sono un qualcosa di scontato. "Non ho bisogno di soldi per passare del tempo con te" lo guardo dirigersi verso la porta, afferrare il pomello e girarsi verso di me.

"Lo so" mi sorrise con le labbra rosee unite. Rimasi a fissare il vuoto.

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