Capitolo 2

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Dopo la lezione di psicologia salutai velocemente Vicky e mi incamminai in fretta verso casa, ci mettevo all'incirca quindici minuti. Molto spesso ringraziavo la mia buona stella per non dover tornare in autobus perché avrei dovuto stamparmi un sorriso finto e parlare con chiunque mi si sarebbe seduto accanto.
"Sono a casa" gridai, buttando lo zaino per terra.
Nessuno, come al solito, mi rispose cosi salii in camera da letto di mio nonno.
"Ciao nonno" gli dissi, sedendomi a bordo del letto.
"Ciao" mi sorrise felice.
Due anni fa gli fu diagnosticato un tumore al cervello che lo stava pian piano facendo scomparire in un letto dalle lenzuola bianche. Avevo sempre avuto un legame meraviglioso con lui, fin da bambina. Amavo passare del tempo con lui a correre nel parco, quando mi portava all'asilo in macchina e quando mi veniva a prendere a scuola dopo una brutta giornata. La cosa che mi ricordavo meglio era, però, il mio sorriso che spuntava non appena lo vedevo seduto sulla panchin per aspettarmi.
"Hai mangiato, Nipotina?" mi chiese preoccupato, usando il nomignolo che aveva sempre utilizzato per me. Non ebbi il coraggio di dirgli che era da un po' di tempo che saltavo i pasti e che questa situazione mi era sfuggita completamente di mano. Aveva già i suoi problemi, non volevo creargliene altri.
"Si nonno, a scuola" gli sorrisi anche io.
Lui stava per rispondere quando sentimmo sbattere la porta d'ingresso e, poco dopo, mia madre entrò in stanza.
"Ciao papà" salutò il nonno. Poi spostò lo sguardo verso di me.
"Lascia in pace il nonno, Emma, non vedi che è stanco? Vai a salutare la tua amatissima sorellina piuttosto" mi schernì. Sapeva quanto io amassi mia sorella e soprattutto quanto mi sentissi in colpa quando non le dedicavo abbastanza tempo e, appena poteva, me lo rinfacciava sempre.
"Ciao Nipotina, torna presto a trovarmi!" furono le ultime parole che sentii prima di correre giù dalle scale, trattenendo le lacrime che ormai si facevano spazio sulla mia guancia. All'ingresso trovai mia sorella accovacciata sul pavimento.
Summer era la bambina più bella che avessi mai visto: i suoi lunghi capelli ricci e corvini le contornavano perfettamente il viso paffuto e i suoi grandi occhi verdi racchiudevano tutto ciò che mancava a me: felicità, spensieratezza, bontà e, soprattutto, speranza.
"Emmy!" mi saltò al collo mia sorella. Nonostante avesse solo dieci anni era molto leggera, infatti, nonostante le mie braccia erano da poco diventate molto deboli come tutto il resto del mio corpo, non mi fu difficile tenerla in braccio.
"Ciao Sammy!" ribattei io con lo stesso entusiasmo. Non volevo che mia sorella mi vedesse giù di morale o triste.; era una bambina così tanto empatica che avrei portato anche lei giù con me. E Summer non avrebbe mai dovuto diventare come me, non me lo sarei mai perdonata.
"Ho tanta fame, sorellona" si lamentò.
"Vuoi preparare qualcosa da mangiare?"
"Insieme?" mi domandò speranzosa.
"Si" la accontentai, nonostante in quel momento la testa mi girasse così forte da farmi vacillare e mi sentissi le gambe appesantite. Sapevo benissimo da cosa erano causati questi sintomi: non mangiavo da quattro giorni.
"Cosa mi prepari di buono?"
"Non lo so tesoro, vai a lavarti le mani mentre io guardo cosa abbiamo in frigo"
Approfittai dell'assenza di mia sorella e mi appoggiai al tavolo, dato che era diventato difficile anche reggermi in piedi. Nel frigo trovai solamente delle uova, ma ero contenta che almeno ci fosse qualcosa da mettere sotto ai denti.
"Allora?" la voce di mia sorella risuonò nella stanza.
"Che ne dici di una bella frittata?"
"Si, io adoro la frittata!" esclamò contenta.
Iniziai così a preparare il pranzo, mentre mia sorella si divertiva nel vedermi all'opera. Avevo sempre amato cucinare, soprattutto quando il nonno mi teneva compagnia. Prima di ammalarsi si sedeva a capotavola e mi parlava della nonna, che io non avevo mai conosciuto. Quando si ammalò non riusciva a non stare sdraiato per tanto tempo. Le prime volte che provai a cucinare senza di lui furono disastrose: mi voltavo verso il tavolo per poggiare gli ingredienti e non appena vedevo la sua sedia vuota cominciavo a piangere fino a quando non riuscivo più a respirare, così smisi di farlo.
Intanto avevo chiesto a mia sorella di cominciare ad apparecchiare la tavola. I coltelli erano a sinistra, le forchette a destra e davanti ai piatti aveva posizionato un cucchiaino da caffè. Non le dissi niente, mi limitai a sorridere e guardarla mentre osservava fiera il suo lavoro.
"Quanto tempo devo aspettare ancora, Em? Sto letteralmente morendo di fame!"
"Sai almeno cosa significa letteralmente?" le domandai divertita.
"Si certo" mi rispose sbruffona.
"Allora spiegamelo" la invitai.
Non rispose, ma i suoi occhi color smeraldo guardavano insistentemente i miei, come se potesse leggerci dentro la risposta. Dopo qualche secondo cominciò a sbuffare, per poi lanciarmi un'occhiata truce. Alla fine, mi fece una linguaccia.
"Che cosa mi hai fatto?" cominciai a rincorrerla attorno al tavolo, ma la piccolina era molto più furba di me, infatti non riuscii a prenderla. Con il poco fiato che mi rimaneva le porsi la mano in segno di pace che, dopo qualche occhiata incredula, mia sorella prese.
"Ah, ti ho fregata cara sorella!" urlai, prendendo il suo braccio per spingerla contro il mio stomaco, iniziando a farle il solletico.
"Basta, basta" continuava a gridare. Ma io non avrei smesso così presto.
Inaspettatamente, si contorse in modo tale da obbligarmi a lasciarla andare e tornò di nuovo dalla parte del tavolo opposta alla mia.
"Cosa state facendo?" sbraitò mia madre entrando in cucina, appena ci vide affannate. Era particolarmente infuriata e inizialmente non ne capii il motivo, poi vidi le pupille allargate. Era già la terza volta quella settimana che tornava a casa in disastrose condizioni e appurai non aveva smesso con gli stupefacenti. Infondo, proprio come diceva il detto: "Il lupo perde il pelo ma non il vizio" mia madre non avrebbe mai smesso di essere una tossicodipendente.
"Nulla" le dissi.
"Dov'è vostro padre?" chiese. Quello fu un colpo difficile: mio padre ci aveva abbandonate quando Summer aveva solo pochi mesi. Lei non se lo ricorda, ma io si. Mi ricordo che mi chiamava Principessa, mi prendeva in braccio e mi faceva girare e che mangiava sempre il gelato alla nocciola. Poi un giorno avevano litigato e mia madre lo aveva cacciato di casa e da lì nessuno l'aveva più visto o sentito.
"Non c'è mamma, torna stasera" la rassicurai, facendola sedere sul divano. Ormai sapevo che dovevo dirle bugie quando era in quelle condizioni, così si tranquillizzava e si metteva a dormire. Quando si svegliava si era già dimenticata tutto.
E successe esattamente così: si addormentò sul divano e ci rimase  fino all'ora di cena. Ringraziai che quel giorno fosse in ferie, sennò l'avrebbero licenziata.
Mia sorella aveva guardato tutta la scena in silenzio e notai che aveva le lacrime agli occhi, così la strinsi forte.
"A volte mi chiedo come sarebbe avere una famiglia come le altre" mi confessò, tirando su col naso. Ricacciai indietro le lacrime.
"Anche io tesoro, ma ricordati che non sarai mai sola, saremo io e te contro il mondo d'accordo?"
"Per sempre?"
"Per sempre" le risposi con sicurezza.
Mi ricordai improvvisamente una frase che avevo letto su un bigliettino di auguri solo poco tempo prima:

"Il mondo ti regala una sorella quando decide che non sarà mai solo"

E solo in quel momento capii quanto quella frase rappresentasse la realtà.

Come una goccia d'acqua nel mareWhere stories live. Discover now