I pezzi

31 4 2
                                    

Raffaele ormai aveva smesso di sentire nel dormiveglia il passaggio dei mezzi della nettezza urbana, vuoi perché spesso in quel periodo non passavano, vuoi perché ormai ci lavorava pure lui, e quindi era già in piedi da un pezzo quando i lampeggianti arancioni proiettavano aloni tremolanti sulle case ancora assonnate.

Erano già tredici mesi che era un dipendente nella municipalizzata di Napoli; all'inizio girava per la città, ma tre settimane prima gli avevano cambiato assegnazione d'ufficio e così era finito come operatore nella discarica di Chiaiano, il grande buco scavato nel tufo proprio sul confine comunale, che tentava di ingoiare una parte dei rifiuti prodotti nel napoletano. Le proteste che avevano contraddistinto l'apertura della struttura si erano ormai dissolte, e il lavoro procedeva: certo, non era particolarmente piacevole, ma era comunque più dignitoso di quello che aveva fatto negli anni precedenti.

Quella mattina, uno dei primi giorni di settembre, si era recato al lavoro come ogni giorno, attorno alle quattro, con il suo motorino. Faceva molto caldo ed era contento di non avere ancora addosso l'uniforme da netturbino, mentre svoltava nella strada che portava alla discarica, annunciata dal solito nugolo di gabbiani e dall'odore acre, al quale ormai aveva fatto l'abitudine... o quasi. A volte temeva di riuscire a sentire solo quello, ed era contento quando, la sera, si rendeva conto di poter sentire anche altri profumi.

Una mezzoretta più tardi, Raffaele era vestito e sudato di tutto punto, mentre procedeva sul fondo di una valletta di rifiuti, sul lato destro della cava. Attorno a lui cumuli alti cinque o sei metri, composti da una quantità indicibile di oggetti: era un panorama paradossalmente capace di affascinare, e a lui ricordava un film che aveva visto un paio di anni prima, il titolo gli sfuggiva sempre ma si sentiva un po' anche lui un robottino al lavoro per ripulire la città. Un lavoro inutile esattamente come quello del robottino, peraltro.

Doveva recarsi sul fondo della cava, sotto l'enorme parete di tufo, per controllare che i teloni gommati fossero integri e che la "pastella" prodotta dall'immondizia non filtrasse nel terreno sottostante. Pubblicamente la cosa era impossibile, nei fatti succedeva abbastanza di frequente, e si rimediava rattoppando alla buona. Raffaele alzò gli occhi verso i rami oltre la sommità del dirupo, un centinaio di metri più in alto, e pensò a quanto era strano ritrovarsi a pensare a quelle cose – strano e bello – e così mancò il primo arto.

Fu impossibile non accorgersi del secondo, però: quando Raffaele riportò gli occhi a terra se lo trovò esattamente davanti. Una gamba nuda, strappata e lacerata all'altezza dell'attaccatura dell'inguine. Era talmente bianca da sembrare di gesso, ma purtroppo era fin troppo vera, il femore dalla testa rotta che spuntava fuori dalla carne frastagliata, una serie di lacerazioni profonde sulla coscia, che sembravano tagli fatti nel pesce crudo, il piede storto a un'angolazione innaturale, segno che la caviglia era stata girata ben oltre le sue possibilità. "Oh cazzo", pensò Raffaele. "Cazzo cazzo cazzo, cosa minchia è successo qui?"

Si guardò intorno per accertarsi di essere solo, e fu così che vide anche il braccio, tre o quattro metri alle sue spalle. Doveva averlo quasi calpestato prima, mentre camminava con il naso all'insù. Le condizioni dell'arto erano persino peggiori di quelle della gamba: alla mano restava un solo dito e le lacerazioni erano molteplici. Lo strappo era terribile e poteva vedere l'osso, quello che si chiamava come un poeta greco del quale non ricordava mai il nome. Il colore cadaverico, peraltro, era identico a quello dell'altro simpatico omaggio che aveva trovato ad attenderlo. "Ma porca troia, ma devono venire qui a rompere i coglioni con le loro porcate?", si domandò l'uomo. Aveva un'idea abbastanza precisa circa la provenienza di quei resti, sapeva come funzionavano certe cose: sicuramente qualcuno aveva pagato a caro prezzo uno sgarro. Certo che... si erano lasciati proprio prendere la mano... Sicuramente avevano ammazzato quel poveretto durante la notte, rifletté Raffaele mentre cercava nei dintorni il resto del cadavere, visto che per ora topi e gabbiani non avevano ancora scoperto che qualcuno gli aveva portato la colazione. Niente, non c'era nient'altro: testa, tronco e il resto degli arti non saltarono fuori, e lui si augurò che fosse perché avevano avuto il buongusto di nasconderli meglio. Adesso però si poneva il problema: che cosa fare con quella roba?

MunnezzaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora