La cella aveva una singola finestra, o per meglio dire una feritoia: era così sottile che non si erano nemmeno disturbati a metterci delle sbarre.
Di certo non era larga abbastanza per far uscire la puzza che stagnava là sotto, un misto di urina, muffa, disperazione e qualcosa di peggio che Drabem non riuscì a identificare... e forse era meglio così.
Non gli avevano detto nulla: si erano limitati a serrargli catene intorno ai polsi e alle caviglie e lo avevano sbattuto in quella fogna, chiudendo la pesante porta di legno con un tonfo e lo scatto del chiavistello.
I punti dove l'avevano preso a manganellate pulsavano a tempo col cuore, mentre i lividi diventavano più scuri.
L'unico modo che aveva per misurare il passare del tempo era lo spostarsi della luce che entrava dalla finestrella, una deprimente meridiana che rivelava, col trascorrere delle ore, nuove zone di pietra incrostata e paglia marcia.
Almeno, si disse per consolarsi, non sono rinchiuso con qualche pazzo, sia ringraziata la Madre dell'Alba.
Ma quando la lama di luce giunse alla fine del suo percorso, quasi si trovò a desiderare di avere una qualunque compagnia che lo distraesse dalle domande che gli scavavano il cervello e lo stomaco.
La notte scese e si portò via tutta la luce. Drabem scoprì che quando si è immersi in un buio così fitto, il confine tra sonno e veglia si fa molto sottile.
Sognò Tarìya, sognò la sua pistola e sognò che veniva usata per farle del male; con orrore, scoprì che la mano a impugnare l'arma elfica era la sua.
Si svegliò di scatto; sudore freddo e sangue rappreso gli incollavano la camicia addosso.
Il dolore delle botte si era un po' quietato, ma dormire sul pavimento aveva aggiunto un paio di acciacchi tutti nuovi. La meridiana era tornata all'inizio del suo ciclo, la luce filtrava pallida e grigia come nei giorni di pioggia.
Aveva la gola secca; nessuno si era preoccupato di dargli qualcosa da bere o mangiare.
La porta si aprì: due Sorveglianti entrarono manganelli alla mano, con le maschere d'ottone rese opache dall'ossido e le divise macchiate e scolorite.
«Muoviti» disse uno dei due, allungando una mano per afferrare la catena che univa le manette di Drabem, ma lui scattò indietro e non si lasciò afferrare.
Il Sorvegliante alzò il bastone, ma l'altro, un po' più alto e piazzato del collega, gli mise una mano sulla spalla. «Aspetta.» Poi si rivolse a Drabem. «Senti, ragazzino: sei già nella merda. A noi non fa differenza portarti dall'Interrogatore con qualche osso rotto in più.»
Drabem serrò i denti e sbuffò dalle narici. Il Sorvegliante gli fece cenno col capo e lui si incamminò, un carceriere davanti e uno dietro, ma almeno non provarono a trascinarlo in giro come un animale al guinzaglio.C'era un'altra decina di celle come la sua lungo il corridoio, tutte chiuse come tombe. Sentì qualcuno piangere da dietro una delle porte: il Sorvegliante che apriva la fila colpì l'uscio col manganello e il prigioniero si zittì.
La stanza in cui lo condussero era poco più grande di quella che aveva appena lasciato, ma al centro c'erano un tavolo e due sgabelli, tutti di legno graffiato e coperto di vecchie chiazze scure. Non ci vuole molta fantasia per capire cosa succeda qui dentro.
Respirò a fondo, ignorando il puzzo nell'aria. Cercò di calmarsi, di dare un senso a quella follia.
Due lanterne specchiate alle pareti davano luce quanto bastava, ma non c'erano finestre.
«Siedi e sta' buono» fece uno dei due.
L'Interrogatore arrivò l'attimo successivo. Era una donna, le forme del corpo non lasciavano dubbi, anche se la maschera le copriva viso e capelli con ottone lucido. Solo le orecchie erano visibili: la loro leggera forma aguzza lasciava pensare che avesse sangue elfico.
Gettò una borsa di cuoio sul tavolo.
«Drabem Ochinyo» disse, la voce deformata dal metallo. «Siedi, per cortesia.»
«Sto bene così» rispose lui. «Devo sgranchirmi un poco. La pietra non è il massimo, però almeno faceva fresco.»
L'Interrogatrice rimase in piedi a sua volta. «Tagliamo corto, se non ti dispiace.»
Ficcò la mano nella sacca di cuoio ed estrasse una lunga pistola elfica decisamente familiare. La luce delle lanterne brillò sulle decorazioni e sulla canna; la bocca, però, era annerita.
«È sua, questa?» chiese lei, puntandogli addosso l'occhio di ottone.
Drabem si avvicinò. Ci deve essere un errore, pensò, una coincidenza, una pistola uguale alla mia.
Ma dov'era finita la sua? L'aveva persa da qualche parte senza accorgersene?
Guardò da vicino la canna e il fiato gli si mozzò in gola.
Quel graffio.
Sperava che non ci fosse, sperava che non fosse proprio l'arma che aveva comprato dal vecchio Cobbler. E invece, eccolo lì: il segno provocato dalla caduta sui sassi della spiaggetta di qualche giorno prima.
Non c'erano dubbi.
«Vedo che la riconosci» disse l'Interrogatrice, senza nemmeno cercare di contenere la soddisfazione.
Il cuore di Drabem picchiava furioso nella sua gabbia, il fiato gli mancava e le pareti di quella stanza sembravano farsi sempre più strette.
«lo–» cercò di dire, ma le parole gli morirono nella gola riarsa «lo non so che cosa sia successo. Non ho fatto nulla.»
«Siediti, ragazzo» disse di nuovo lei, e stavolta la prospettiva divenne allettante, dato che le gambe avevano cominciato a farsi molli.
Da dentro la sacca la donna prese una bottiglia di terracotta e tolse il tappo di sughero. «Bevi un sorso d'acqua» disse. «Tranquillo, non ci abbiamo messo nulla.»
Drabem la prese senza pensare, la mente era troppo occupata altrove, ma il fresco piacere del primo sorso lo aiutò a schiarire le idee, calmargli i nervi e riordinare le domande che gli si agitavano in testa come uno sciame di vespe.
«Quando è successo?» chiese, cercando di dare un senso alla situazione.
«È successo due notti fa» disse quella.
Drabem serrò la mascella. Le immagini di quella giornata gli inondarono la mente, così calde, soffici e dolci... del tutto aliene a quello che stava passando in quel momento.
L'Interrogatrice si sporse sul tavolo. La maschera era più ornata di quella dei semplici Sorveglianti, con motivi geometrici attorno al grande occhio. «Eri con qualcuno?»
Tariya. «Dove sono cresciuto» disse Drabem, «rispondere alle domande delle maschere porta più guai che star zitti.»
La donna sibilò sotto il metallo. «Ascolta, Ochinyo. Lo so che per strada pensate tutti che il nostro lavoro sia quello di riempire le colonie di schiavi. Ma non è così.»
«Ah, no?» una parte di lui sapeva di essere stato condannato nel momento in cui le maschere l'avevano portato via. Se lo ricordava bene: quelli come lui non tornavano mai indietro, quando venivano presi.
«No. Il mio lavoro è scoprire la verità.» Si rimise seduta, intrecciando le dita guantate sul tavolo davanti a sé. «E se la verità è che tu non hai fatto nulla, allora sarai libero di andare.»
Drabem ci sperava, era impossibile non farlo... ma sapeva com'andava il mondo.
«Pensaci bene, ragazzo.» Gli puntò l'indice verso il viso. «Lo vedo che avresti qualcosa da dire.»
Per un istante ebbe il terrore che le leggende riguardo gli Interrogatori fossero vere: che potessero leggerti nella testa, che anche se avesse tenuto le labbra sigillate avrebbero comunque capito tutto quello che gli serviva.
O meglio: tutto quello che faceva loro comodo per condannarti a lavorare in una piantagione o nelle Fauci di Yanagon.
«Allora?» lo incalzò.
Drabem pensò a tutto quello che era accaduto quel giorno.
Tanto.
Troppo per un cuore solo.
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Padrona del Vento - Episodio I - La Tempesta
FantasyDi tutte le avventure che sognavano, a Tarìya e Drabem è rimasta solo un'ultima notte d'amore prima di essere separati. Lei, costretta in un matrimonio con un marito dall'anima putrida, tanto potente quanto violento. Lui arrestato e venduto come sc...