Dopo più di dieci ore finalmente scendo dall'aereo. Il volo è stato interminabile, un susseguirsi di minuti che sembravano dilatarsi all'infinito. Le ore passate in volo, chiusa in un tubo di metallo sospeso nel cielo, mi hanno lasciato con la mente annebbiata e il corpo indolenzito. Ogni piccolo movimento è una fatica, ma la stanchezza non può competere con il desiderio di arrivare, di mettere piede a terra.

Trascino i piedi verso il ritiro bagagli, sperando che la mia valigia arrivi in fretta, come se questo potesse accorciare l’attesa che ancora mi separa dall’uscita. Estraggo il telefono dalla tasca e mando un messaggio al mio ragazzo per avvisarlo del mio arrivo. Non so neanche perché lo faccio, forse è solo abitudine, o forse una parte di me spera ancora in una risposta che non suoni vuota e distaccata.

"sono appena atterrata"

Le parole appaiono sullo schermo fredde e dirette, specchio del nostro attuale stato d'animo. Non c'è calore, non c'è emozione. Solo la constatazione di un fatto. Ormai da tempo le cose tra noi non vanno più come prima. Sono passati quattro anni, eppure sembra che con il tempo qualcosa si sia inevitabilmente spezzato. Certo, non è mai stato facile. I tira e molla, le discussioni, i silenzi che si prolungano troppo a lungo. Ma questa volta è diverso. Questa volta sembra che non ci sia più niente da recuperare.

Il telefono vibra e mi riporta alla realtà. Leggo la sua risposta con un misto di irritazione e tristezza.

"bene, fai attenzione."

Sollevo gli occhi dal display e faccio una smorfia, un riflesso involontario al suo messaggio. Avrei preferito un "mi sei mancata" o anche solo un "sono contento che sei arrivata", ma quello che ottengo è la stessa freddezza che ormai caratterizza ogni nostra conversazione. Non gli rispondo, sarebbe inutile. In questo momento, ogni parola sembra superflua.
Ma cosa mi dovevo aspettare? Siamo semplicemente un contratto, lui il calciatore del momento e io la modella del momento.

Mi concentro sui bagagli che cominciano a scivolare sul nastro trasportatore, sperando di distogliere la mente da questi pensieri. Finalmente vedo la mia valigia, un lampo familiare in mezzo a tante altre. La afferro con decisione e mi avvio verso l'uscita, mentre il cuore accelera il ritmo. Mi guardo intorno, cercando tra la folla il volto di Alan, mio fratello. Lo vedo poco distante, appoggiato con disinvoltura a una colonna. Ha l’aria rilassata, come se aspettarmi fosse la cosa più naturale del mondo, e la sua vista mi strappa un sorriso.

Devo ammettere che mi è mancato. Nonostante le nostre continue discussioni, nonostante il nostro rapporto tumultuoso, c'è sempre stato un legame speciale tra di noi. Quel tipo di legame che solo due persone che si conoscono da tutta la vita possono avere. Mi avvicino a lui e, senza pensarci troppo, lo abbraccio. Il suo profumo familiare mi avvolge e, per un momento, mi sento al sicuro.

"Amelia, lui è Alex," dice Alan indicandomi l'amico che gli sta accanto.

Alzo lo sguardo e mi trovo di fronte ad Alex. È un ragazzo alto, con un atteggiamento strafottente che traspare dal suo sguardo sicuro e dal sorriso sornione che sembra giocare costantemente sulle sue labbra. I suoi occhi mi scrutano con un’aria di sufficienza, come se già sapesse tutto di me, come se non ci fosse nulla che potesse sorprenderlo.

"Piacere," dico tendendogli la mano, cercando di nascondere il fastidio che mi suscita il suo atteggiamento. Alex la stringe con un tocco sicuro, quasi invadente, e il suo sguardo si fa più intenso, come se stesse cercando di leggermi dentro. Non posso fare a meno di sentirmi un po' a disagio, ma cerco di non darlo a vedere. Dopo tutto, è solo un amico di mio fratello, qualcuno che vedrò solo per qualche giorno.

"Il piacere è mio," risponde con una voce profonda e vagamente ironica, come se la nostra conversazione fosse solo un gioco per lui.

Mi volto verso Alan, cercando un po’ di conforto, ma lui sembra del tutto a suo agio, come se non si accorgesse della tensione che percepisco. Forse sono solo stanca, forse è solo il jet lag.

Alex si offre subito di prendere la valigia dalle mie mani, il suo gesto è rapido, quasi automatico. Non mi lascia neanche il tempo di protestare. Lo guardo per un istante, sorpresa dalla sua prontezza, ma lui mi risponde con un sorriso complice, come se fosse abituato a prendersi cura delle cose degli altri senza chiedere.

"Grazie," mormoro, più per educazione che per vera gratitudine, e lui annuisce, come se non si aspettasse niente di più.

Ci avviamo verso il parcheggio, con Alan che ci guida, mentre Alex cammina al mio fianco in silenzio. L’aria della sera è fresca, una piacevole tregua dopo l'opprimente chiusura dell’aereo. Cerco di rilassarmi, ma la tensione accumulata durante il viaggio mi tiene ancora in uno stato di vigile inquietudine.

Arrivati alla macchina, Alan apre il bagagliaio e Alex vi ripone con facilità la mia valigia, prima di sistemarsi sul sedile anteriore. Io scivolo sul sedile posteriore, lasciando che il freddo della pelle dell’auto mi accarezzi, sperando che mi aiuti a rimanere sveglia.

Mentre Alan mette in moto, la macchina si riempie del familiare ronzio del motore. La città fuori dai finestrini scorre lenta, le luci notturne creano giochi di riflessi che si mescolano tra loro. Il silenzio tra noi è quasi confortevole, rotto solo dal rumore del traffico lontano e dal ronzio delle gomme sull'asfalto.

"Allora, com'è andato il viaggio?" chiede Alan improvvisamente, rompendo la quiete mentre mi osserva dallo specchietto retrovisore.

La sua domanda è innocua, ma sento una stanchezza profonda in ogni cellula del mio corpo. La sua voce è gentile, ma tradisce una leggera preoccupazione. È come se cercasse di valutare il mio stato d'animo senza voler essere troppo invadente.

"Come doveva andare? Sono state tredici ore molto intense," rispondo, la voce lievemente affaticata. Con un gesto quasi automatico, porto le mani alle tempie e inizio a massaggiarle, sperando di alleviare il dolore che pulsa dietro i miei occhi. Il volo è stato più che stressante, e la mancanza di sonno non ha fatto altro che peggiorare le cose.

Alan sorride allo specchio e scuote la testa con una leggerezza che riesce sempre a infondermi un po' di calma. "Sapevo che l'avresti presa così," dice con una risata leggera, poi si concentra sulla strada. Non c’è bisogno di altre parole; conosce già tutte le risposte che potrei dargli.

Il viaggio continua in un silenzio quasi confortante, interrotto solo dal rumore della città che ci circonda. Mi ritrovo a fissare la nuca di Alex, osservandolo di nascosto dal sedile posteriore. Non posso fare a meno di notare la sua postura rilassata, come se nulla potesse davvero toccarlo. Il suo atteggiamento spavaldo e sicuro mi irrita, ma allo stesso tempo c’è qualcosa di affascinante in quella sicurezza. Ha un modo di stare al mondo che sembra dire che tutto gli è dovuto, che niente lo sorprende o lo turba.

La sua presenza è ingombrante, anche se non sta facendo nulla di particolare. La sua mano si muove con disinvoltura sul bracciolo, mentre con l’altra tamburella le dita sul bordo della portiera, seguendo un ritmo che solo lui sembra sentire. Mi chiedo cosa stia pensando, se anche lui mi stia studiando come io faccio con lui. Ma il suo viso è imperturbabile, lo sguardo fisso fuori dal finestrino come se il paesaggio notturno avesse qualcosa di profondamente interessante.

Mi mordo il labbro inferiore, cercando di distogliere lo sguardo, ma c’è qualcosa in lui che mi intriga e mi irrita allo stesso tempo. Questo viaggio sarà sicuramente interessante, ma non sono ancora sicura di che tipo di interesse si tratti.

E mentre la macchina scivola silenziosamente lungo la strada, con Alan concentrato alla guida e Alex perso nei suoi pensieri, mi rendo conto che queste ore potrebbero essere solo l'inizio di qualcosa di molto più complesso.

No.
Sono fidanzata.
Lui mi ama.
Io amo lui

Penso, cercando di convincere me stessa. Eppure, mi manca sentirmi amata ogni tanto.

 𝙸𝚗𝚜𝚝𝚊𝚐𝚛𝚊𝚖|𝙰𝚕𝚎𝚡 𝙲𝚑𝚒𝚗𝚘Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora