Molte estati fa

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«Sei troppo piccolo, te ne devi andare.»

Fortunato restò lì a fissarmi, le sopracciglia aggrottate, la bocca piegata all'ingiù.

«Dai fraté. Fammi giocare un po'.»

Scossi la testa.

«E poi ce l'abbiamo già la squadra. Non c'è posto.»

Avevo il pallone sottobraccio e il sudore mi scendeva giù dalla schiena.

«Dai Beppe, muoviti!» Salvo e Tony continuavano a gridare.

Tornai correndo da loro.

La vecchia chiesa del paese era ormai uno scheletro di mura diroccate. La usavamo come un campo da calcio, quei pomeriggi d'estate.

Fortunato era arrivato un giorno di pioggia, come un cane randagio. Se ne stava in disparte, ci osservava. Con un bastone disegnava sulla polvere a terra.

A volte se ne stava seduto in silenzio, appollaiato dove un tempo c'era stata una finestra.

«Cosa voleva quello?»

«Vuole fare il portiere, dice che è bravo.»

Tony scoppiò a ridere.

«E' piccolo come una mosca, ma che deve fare quello!»

Tornammo a giocare, ignorando Fortunato come facevamo sempre.

Una sera, dopo la solita partita, mi sbucciai un ginocchio. Non potevo tornare a casa così, sporco di terra e sangue. Andai alla fontana vicino a casa.

Fortunato mi seguiva in silenzio, qualche passo più indietro.

L'acqua fresca sulla pelle accaldata mi diede un po' di sollievo.

Il frinire delle cicale diventava più intenso al tramonto, come se non volessero andare a dormire.

«Che hai da guardare, Fortù.»

Era tutto appuntito, come uno di quegli omini nel gioco dell'impiccato. Le gambe sottili gli davano un aspetto sgraziato.

«Il portiere non è buono. Io sono più bravo.»

Sbuffai.

«Abbiamo già la squadra. Non insistere.»

«Faccio la riserva. Vi raccatto i palloni.»

«Uffa! Ma perché ci tieni tanto?»

«Perché non ho nessuno con cui giocare.»

Aveva gli occhi tristi.

«Ho promesso a mia mamma di farmi degli amici veri. Sennò dice che vengono gli assistenti.»

Bevvi un sorso d'acqua fresca dalla fontana.

«Gli assistenti?»

Lui scrollò le spalle, guardava lontano.

«Ma chi ti taglia i capelli a te?»

Aveva i capelli tutti scarruffati, la canottiera sbrindellata.

«Mia mamma.»

Mi asciugai la faccia con la maglietta sporca di erba e polvere.

«Tua mamma non fa la parrucchiera, allora.»

Fortunato non rise.

«Ma perché mi segui?»

Alzò la testa e indicò l'enorme mostro di cemento, quello dietro casa mia.

«Vivi alla Vela?» lui annuì.

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