Il Teorema di Galois

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Mi fermo, senza apparente motivo.
Immobile.

Lo faccio ogni giorno, come se stessi aspettando un segnale mai destinato all'arrivo.
Forse non esiste. Forse io stesso non esisto.

Tutto sembra accadere fuori da me, scivolare su una serie d'istanti ormai trascorsi.
Il tempo non mi appartiene; mi sfiora, mi guarda, mi supera.
Anche le persone più lente scorrono come un torrente in piena, il loro scroscio rimbomba nell'aria, ma io resto fermo, indisturbato dal galoppo della corrente.

Le acque impetuose mi cullano, e dolcemente mi toglono il respiro.
Non vedo dove finiscono i miei pensieri e dove inizia il mondo. Non c'è distinzione.
Eppure, tutto corre, ansima, si consuma.
Io no.
Io sono altrove, o meglio, non sono affatto.
Non c'è spazio per me in questo scorrere, ma ci sono comunque immerso.

Mi viene in mente un pensiero, il mio incubo ricorrente:

se avessi tempo, cosa farei?

Ma già conosco la risposta: il tempo non è la vera questione. Anche se ne avessi un'infinità, sarei comunque ibernato nell'inerzia, aspettando che il ghiaccio sia sciolto dal sole.
C'è un'ironia crudele in tutto questo: più rincorro il tempo, più mi sembra di perderlo. Ma, paradossalmente, l'età invidiosa non fugge, non si cura della mia esistenza.
Nel panta rei in cui sono l'unica roccia, l'acqua si limita a passarmi accanto: non mi trasporta, ma mi erode lentamente, mi vince, mi annega.
Non c'è una via di fuga, ogni cosa è indistinta.
È strano come si possa affogare nel nulla.

Mentre gli altri guardano il cielo e scorgono l'Iperuranio, io lo vedo sciogliersi, colare rapidamente fino a tumularmi. I viali si chiudono in un intarsio di edifici, voci lontane e corridoi labirintici; avvolgono con vergogna e premura quel rigor mortis in cui è permutato il mio Io.

Ma non è solo il tempo a mancare.
È la sensazione che, anche se lo avessi, non saprei come impiegarlo, e di certo non si piegherebbe alla mia indecisione. Évariste Galois lo sapeva bene, lui che, alla mia stessa età, scrisse le ultime equazioni la notte prima di morire, consapevole che il tempo fosse l'unica ricchezza che gli era negata.
"Non ho tempo", scriveva disperatamente accanto a pezzi di dimostrazioni mai concluse di suo pugno; e io ripeto quelle parole come un mantra:

Non ho tempo.

Non ho tempo di parlare, né di ascoltare. Non ho tempo di coltivare legami, né di tagliarli.
Non ho tempo per distrarmi, né per concentrarmi.
Non ho tempo di esistere come gli altri fanno con tanta semplicità.
E, anche se avessi tempo, non lo userei, perché non appartengo al tempo, e il tempo non appartiene a me.

Forse sono solo una coscienza vagante, un punto su una retta infinita. Ma anche i pensieri si perdono in un silenzio che deficie di spiegazione.

Dunque, mi fermo ancora, senza apparente motivo.
Immobile.

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