Più andava avanti questa situazione più mi accorgevo che se io stavo male, il mio male, il mio dolore si riversava sugli altri. Li rendeva deboli. Il mio pensiero li condizionava. Io ero la loro unica speranza. Non importava cosa avessi dovuto fare per dare un senso a quelle giornate, ormai non mi spaventava più nulla, e se avessi perso la vita per quei ragazzi ne sarei stata felice, perché era giusto. Perché loro l'avrebbero certamente fatto per me. Ne sono convinta. Sicuramente meglio che vivere in agonia in questa maniera. Mi presi di coraggio, dunque e mi incamminai per trovarli e parlargli. Non appena arrivai a scuola tra spinte e occhiatacce mi feci spazio tra lo sciame di studenti che si preparavano per affrontare la giornata che stava per cominciare, per entrare in chissà quale aula a affrontare chissà quale inferno. Mancava ancora un quarto d'ora pieno al suono della prima campana, poi ancora la seconda e infine la terza. A scuola si distinguevano diversi gruppi, i Nerd, erano quelli in cui io mi trovavo meglio. Non notai Sophie oggi a scuola. Chissà, forse stava ancora male a causa della brutta febbre che si era presa la settimana scorsa e oggi per via del tempo, cupo, fitto e nero ha deciso di rimanere a casa. Peccato perché avrei voluto stare un po' con lei, per chiacchierare e ricordare a me stessa che sono solo un'adolescente di 16 anni, nel fiore della mia giovinezza, lupo mannaro. Che mi distinguevo era sicuro per lo meno. A me non spaventava più niente. Quasi nulla ormai mi faceva soffrire, né emotivamente né fisicamente, ero un vero e proprio scudo. Mia madre, che faceva un lavoro molto modesto, la commessa, non si sforzava più di capire i miei problemi, aveva gettato la spugna. Da una parte mi sollevava che non avrebbe più rischiato la vita per impicciarsi nei miei affari. Dall'altra mi dispiaceva che mi considerasse "un caso perso". Di sicuro non avrebbe capito, è una donna molto tradizionalista, non vuole neanche che fumo, figuriamoci se vuole che una volta al mese mi trasformi in un animale che tenta di uccidere i nostri dannatissimi e fastidiosissimi vicini di casa. A mia nonna sarebbe venuto un colpo, non oso immaginare. Mi misi alla ricerca di ognuno di loro, e per prima trovai Emily, non avevo credito nel cellulare perciò avrei usato il suo per scrivere un messaggio agli altri e dargli appuntamento. La trovai come al solito, insieme alla squadra di cheerleader, la riconobbi in un attimo, non so se a causa della sua folta chioma castana o il suo metro e ottanta di altezza che la distingueva dalle altre, fiere e alte (o basse) un metro e una Pringles. La strattonai via da un gruppo di Barbie bionde e occhi azzurri. Ognuno di noi a scuola, per qualche ora poteva scegliere di essere chi non era. Tutti avevano un ruolo, chi il giocatore di calcio, l'attrice, la cheerleader. Lei non faceva parte di quel mondo, ma neanche io, perciò non biasimavamo Emily per ciò che fingeva di essere. Saremmo stati degli ipocriti perché anche noi fingevamo di essere qualcuno, che in realtà, chiaramente non eravamo. Alcuni come Emily fingevano di farsi piacere qualcosa che piaceva a tutti, profumi, smalti, minigonne. Anche se odiava andare da Bershka o Tally Weijl il week-end. Così faceva, per lo meno lei aveva il coraggio di non mutare atteggiamento, seppur influenzata dagli altri. Questa qualità era molto sottovalutata. Per quanto strana fosse, noi, tutti noi, le invidiavamo qualcosa. Le dissi:"Prestami il cellulare che mando un messaggio agli altri"-"Certo." Fece lei in risposta. E digitai sulla tastiera dell'iPhone "tra due minuti davanti al ghetto". Il ghetto è uno spazio all'aperto all'interno della scuola dove la maggior parte degli studenti ci passano per fare due tiri di canna prima di entrare a lezione, o a fumare una sigaretta, e chi non fumava chiaramente faceva compagnia agli altri. Come stabilito, ci ritrovammo lì davanti. E partirono con le domande, subito dopo i saluti. Con Richard e Damon era stato un po imbarazzante salutarsi, i due avevano uno un taglio sul labbro e l'altro un occhio nero. Si tenevano a debita distanza, evidentemente ancora arrabbiati. Alcuni dissero:"Notizie di Amanda?"-poi altri:"Melissa non dirmi che ti sei fidanzata, questi due se le sono date per bene!"-"Io direi di stabilire un voto democratico!"-scoppiarono a ridere tutti, e ne approfittai per cominciare a parlare, chiusi gli occhi e inspirai, cominciai a parlare rispondendo ad ogni quesito:"Ho deciso di andare a trovare ad Orlando, qui, la famiglia Aymara."- a quelle parole schioccò un lampo che divise a metà il cielo, destino? Coincidenze? Non credo proprio. Tra me e me pensavo "DIO SII PIÙ CHIARO! GRAZIE." E cadde il gelo all'istante. La famiglia Aymara era la famiglia più antica di licantropi per centinaia se non migliaia di anni occuparono con il completo dominio l'America e l'Europa, erano i più forti, e lo sono tutt'ora. Richard parlò per primo e disse:"Se tu combatti io voglio combattere."-"Non combatterò Richard, se non si mostrerà necessario. Voglio chiedere il loro aiuto."-mi interruppe Damon-"Io ti seguo"- e un paio di-"Anche io"- da parte di tutto il branco mi rimbombarono nella testa.-"No"-dissi ferma-"Vado io e basta."-"Ti uccideranno"- intervenne Chuck. Non li feci replicare ancora e mi precipitai dentro la scuola. Il discorso si chiuse li, nessuno osò riaprirlo. Ma sapevamo che avremmo dovuto affrontarlo. Prima o poi. Durante la pausa pranzo mentre scherzavamo tra di noi, Damon mi prese la mano sotto al tavolo. Non sapevo cosa pensare o come reagire ma sul momento, la strinsi più forte. E guardandolo negli occhi, sorrisi. Nello stesso istante mi girai per guardare Richard che aveva gli occhi bassi, e accesi, chiaramente stava usando la sua vista da lupo per vedere perché sorridevamo. Le lacrime gli riempirono le palpebre, e scesero sole. Non sapevo più come comportarmi, mi si spezzò il cuore per qualche frazione di secondo. Tutto stava andando bene, si alzò, e anch'io lo seguii. Sul tavolo cadde il silenzio.-"Perché scappi Richard! Avevi detto che non mi amavi più, perché non puoi provare ad essere felice per me? Dimmelo! Perché io sarei stata felice per te!"-no. Non lo sarei stata. Avrei azzannato quella troia e le avrei sgozzato la gola. Si girò, a quelle parole, mi guardò, e fece per aprir bocca e parlare-"Melissa, mi dispiace tu mi abbia creduto e visto in questa maniera. È chiaro che sei confusa. Ultimamente sto avendo dei problemi da risolvere con me stesso, a causa delle mie decisioni."-bastardo maschilista-"Io...."-disse esitante per un po-"Sono felice per te". E allora in quell'istante mi crollò il mondo addosso. Ma lui non doveva saperlo.-"Grazie.". Tornai al tavolo, e stavolta presi io la mano di Damon, il suo sguardo si accese. Non lo fece apposta, immagino. Alle volte capita di non poter controllare il colore dei tuoi occhi quando sei sorpreso, o troppo felice. Risi guardandolo che cercava di contenersi. Era buffo. Ma dentro stavo morendo. Dentro ero un disastro.