File 1- Josephine

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Se dovessi descrivere il momento in cui mia madre incominciò ad avere i primi sintomi di quell'epidemia, credo che mi troverei in difficoltà in quanto al tempo ero poco più di una bambina al secondo anno d'asilo. Perciò, molte mie memorie sono sfocate o confusionarie e non saprei nemmeno se definirle veritiere. Sapete, no? Quando si è convinti di aver vissuto una tale esperienza ed invece era solo un sogno rimasto impresso nei ricordi per un motivo o per l'altro? [...]
Eppure sono certa che quando ella si trasformò in una belva irriconoscibile io ero presente. L'avevo vista con i miei stessi occhi accasciarsi al suolo di colpo, senza alcuna ragione.
Era caduta a terra mentre non faceva assolutamente nulla.
Ricordo che stava guardando fuori dalla finestra, con la sua solita espressione sognatrice che solo i creativi possiedono, ed io seduta a tavola, intenta a disegnare la nostra piccola ma felice famiglia.
Proprio quando presi in mano il pastello color canarino per tracciare i lunghi capelli biondi di mia madre, sentiì un qualcosa di pesante sbattere contro il pavimento di piastrelle.
Un suono inumano, simile al vetro quando cade a terra ma con la robustezza di un grande animale. Subito dopo venni colpita da un assordante stridiìo ad entrambi i timpani e non seppi assolutamente come reagire.
L'unica cosa che pensai era di controllare se stesse bene.
Le accarezzai sulla spalla titubante.
Poteva anche essere un nuovo gioco, per quanto avrei potuto saperne.
Di tutta risposta ricevetti un suono monosillabico grottesco che solo dalla bocca di una belva irata demoniaca avrebbe potuto fuoriuscire.
Non era più mia madre quella creatura ringhiante e bavosa dagli occhi iniettati di sangue che cercava, invano, di rialzarsi con la sola forza delle braccia.
I suoi occhi rossi mi stavano fissando senza battere ciglio, assenti di qualunque emozione, vuoti e spenti.

Urlai e piansi con tutta la forza che avevo nel mio corpicino, invocai mio padre che per mia disgrazia era ancora a lavoro, lontano da me e da quell'essere rivoltante.
La mia mente era vuota, svanita da ogni pensiero razionale.
Davanti a me vedevo solo un mostro degli incubi uguale alla mia mamma.
Dovevo correre.
Via.
Al sicuro.
Lontana.
Non importava come o dove, scappare era il solo obiettivo.
Attraversai di corsa il corridoio che separava le varie stanze della casa col cuore in gola e non osai voltarmi.
Corsi, corsi e corsi ancora fino a che vidi la salvezza: la porta d'entrata.
Provai ad aprirla, tirandola verso di me, ma non ottenni nulla.
Era chiusa a chiave dall'interno e non avevo tempo per cercarle, ovunque fossero.
Sentiì che non avrei avuto alcuna via di scampo, l'oscurità mi stava avvolgendo a se ad ogni passo, seppur lento, dell'abominio selvaggio.
Il buio profondo avanzava ad inghiottitirmi con la sua ferocia, di fronte a quella porta serrata di condanna.
La creatura continuava senza interruzioni la sua camminata, diretta verso di me.
Ero la sua preda.
Voleva solo me.
Me e nessun altro.
Sarei rimasta bloccata in quella stanza per sempre.
I soli suoni che percepivo erano le palpitazioni del mio cuore, i passi della fiera assieme a quelle grutture orripilanti e diaboliche, sempre più profonde.

Le ombre mi oscurarono la vista e la mente, percevivo una mera sensazione di vuoto senza fine. Non sapevo cosa fosse di preciso, eppure era dentro di me e all'infuori. Quella stessa casa odorava di quella strana parola: morte.

Un colpo di sparo spezzò le tenebre.
Notai la finestra alla mia sinistra, dapprima chiusa completamente dall'esterno, ora spalancata.
Corsi verso quella luce e con un salto mi ritrovai sul cornicione dall'altra parte del vetro magnetico. Per mia grazia la nostra casa aveva un solo piano. Con un altro piccolo salto toccai il suolo. La creatura era ancora sulle mie tracce, lo notavo dal verso abominevole. [...]
-Marianne, porta via la bambina.-
Un omone sulla cinquantina mi venne incontro, in mano un fucile da caccia puntato verso l'alto. Una piccola donna, poco più di un'adolescente, lo seguiva. Ella annuiì, mi prese in braccio e iniziò a correre verso il cancello d'entrata.
Una volta giunte fuori [...]
La signorina Marianne mi avvolse una benda attorno agli occhi, ma io non volevo.
Il buio, lo rivedevo ancora. Il mostro avrebbe potuto catturarmi se non l'avessi visto, poteva essere ancora dietro di me o davanti oppure in osservazione dalla finestra smagnetizzata, con i suoi arti dislocati l'avrebbe scavalcata lo stesso e mi avrebbe fatto conoscere la morte. Quella parola talmente terrificante e sconosciuta che mai avrei voluto comprendere.
-No! Il buio no! - Imprecai lasciando scorrere altre lacrime sul mio viso, mentre con le mani cercavo di togliermi la stoffa scura dalla vista.
Marianne replicò con tono pacato.
- Ci sono io con te. Cantiamo una canzoncina per scacciare il brutto mostro. - Sussurrò, portando le sue mani alle mie orecchie.
La voce tenera ed inebriante della ragazzina, quel tocco caldo e colmo d'amore, anche il suo profumo emanava un nonsòche di buono.
L'associai alla mia mamma, quella vera. Il mostro era un falso, Marianne mi aveva salvata dalle tenebre.
Lei e unicamente lei doveva essere stata sin dal principio la mia vera madre, pronta a rimediare il tempo perduto. Nella mia mente di allora sembrò un pensiero indissolubile, tant'è che iniziai a cantare secondo i suoi ordini.

Frére Jacques,
Frére Jacques,
Oû-es-tu? Oû-es-tu?

Le parole mi trascinarono via dalla paura, portandomi lontana dal tempo e dallo spazio, dalla luce e dalle tenebre, dal tutto.
Come il testo di quella canzoncina infantile, trascorse la mia vita a partire da quel fatidico giorno.
Fino a che, le note smisero di assumere un significato e si tramutarono in un'emozione e desiderio di creare nuovi testi per i bambini che sarebbero venuti negli anni a venire.
Volevo salvare la nostra umanità, in un certo senso vendicare la mia innocenza dei tempi che avevo quasi dimenticato.
Quel giorno, una sola frase fu sufficiente a risvegliarmi dal sonno ipnotico della voce di bambina nella mia testa.

-I mostri dagli occhi rossi ci uccideranno tutti! -
Era stato un anziano ad urlare, intromettendosi a preavviso in un servizio del telegiornale regionale. Il suo volto era la rappresentazione del terrore folle, occhiaie profonde gli percorrevano il viso, la sua carnagione era pallida cadaverica e i suoi vestiti ridotti ad un brandello, imbrattati di terra e fuliggine.
[...]

- Josephine, che stai facendo?!-

Senza neanche rendermene conto, avevo distrutto in cocci il bicchiere che tenevo tra le mani.
Sanguinavo, eppure non provai il minimo dolore, come se quel liquido non mi appartenesse affatto.
[...]






























Questo insieme di estratti dal suo libro autobiografico- "Sono una vittima"- edito da Reinassance, termina al punto in cui hanno inizio quelli che noi ora definiamo " Anni della violenza". Il resto della storia ve lo raccontiamo noi.
Josephine Woff nel corso di pochi anni ha sviluppato un disordine di violenza incontrollata verso qualunque essere sembrasse infetto, includendo innocenti. Il gesto che le ha fatto traboccare la goccia dal vaso è stato l'omicidio del comandante Marc Pontavice (clinicamente sano) e quello tentato dei figli dell'uomo, in un'età compresa dai venti ai dieci. Josephine si è sempre rifiutata di chiarire il motivo di questa sua azione.
Secondo i medici, avrebbe scambiato in un momento di follia il parziale albinismo nell'uomo-occhi dall'iride rossa dalla nascita- per un sintomo del Virus.
È stata condannata a scontare un periodo indeterminato nella clinica psichiatrica per criminali violenti.
Nonostante tutto, lei continua a dichiararsi innocente.

Quando, per disgrazia, vi potrebbe mai capitare di ritrovarvi in quella clinica, potreste sentire un canto solitario. Che sia giorno o notte non importa, Josephine ripeterà sempre le stesse note, nella sua piccola cella blindata.

Frére Jacques,
Frére Jacques,
Oû-es-tu? Oû-es-tu?

Per Coloro Che VerrannoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora