Sento la luce del sole penetrarmi le palpebre. Le tapparelle erano leggermente alzate, e le finestre erano aperte. Sentivo il dolce profumo di fiori e l'aria umida del mattino perforarmi le narici.
Aprii gli occhi. Mamma non era, come al solito, distesa sul suo letto di fronte a me. Il rumore dell'olio che frigge mi fece subito pensare che fosse in cucina.
L'aria era profumata e sapeva di gelsomino, mia madre li piantava ovunque, anche nei vasi da mettere dentro casa.
Mi alzo scuotendo la testa all'ingiù cercando di svegliarmi. Che ore erano? Non aveva importanza. Tutti i giorni, per me, erano uguali.
Il bagno sapeva di detersivi; anche quel giorno mia madre si era data da fare ripulendo le macchie di sangue del giorno prima che sgorgavano a fiotti dal mio naso, dopo essere ritornata a casa da scuola.Mi lavai il viso. Stranamente la trovavo una cosa rilassante. Era come se tutti i pensieri, tutte le lacrime, tutto il trucco colato del giorno prima scivolassero via assieme all'acqua.
Come al solito, prima di scendere in cucina mi vestivo. No, forse avete capito male. Io non mi ero mai vestita con maglioni a maniche lunghe, giacche o felpe solo per nascondere i tagli. Perchè no, io non mi taglio.
Perchè farsi del male se già il male te lo fanno gli altri? Sarebbe una cosa da stupidi, no? O, almeno, è quello che penso io, non mi faccio condizionare dagli altri.Mia madre, come pensavo, era già la, ritta in piedi, con un cucchiaio in mano e un vecchio grembiule da cucina ormai sgualcito legato in grembo.
«Giorno tesoro. Dormito bene?» mi chiese versandomi del succo d'arancia nel bicchiere davanti a me.
«Come al solito» risposi io indifferente, rosicchiando un biscotto al cioccolato.
«Oh, hai pianto un'altra volta?» mi guardó come se fossi una vecchia povera donna che chiedeva elemosina. Insomma, mi guardava con disprezzo.
«Se lo sai già perché lo chiedi?» a quella domanda non rispose. Trovavo naturale tormentare mia madre, insultarla o prenderla in giro. Lei c'era abituata, come c'ero abituata io.
«Se sai che piango, perché me lo devi sempre chiedere? Sai che mi da fastidio. Lo so che di notte, quando piango, tu sei sveglia e mi ascolti» mi guardó come se gli avessi appena detto di aver scoperto che ero stata adottata (cosa che non sono).
«Finisci di mangiare che ti accompagno a scuola. Sempre in ritardo sei, ovvio che gli altri ti prendono in giro» e a quelle parole gli lanciai uno sguardo fulminandola.
Dopo aver inghiottito due pezzetti di pancake e aver bevuto un sorso di succo, mi alzai da tavola e raccolsi da terra il mio zaino, caricandomelo in spalla.
La mia scuola era grigia. Portava tristezza. Sembrava una prigione. I ragazzi al suo interno sembravano sempre tristi, avevano gli sguardi persi mentre camminavano per i corridoi. Nessuno che si salutasse o mostrasse un sorriso. Tranne, ovviamente, lei: Kalie Jackson.
Ragazza alta, capelli neri, occhi azzurri e fisico perfetto. Non ci si puó sorprendere a sapere che tutti i ragazzi le vanno dietro sbavando come cani da caccia.Poi, giustamente, c'era Mark Tomlinson. Un altro figo da paura che passava le sue giornate a sbavare dietro a tipe come Kalie, e a limonarsi ogni ragazza che gli passava affianco. No, purtroppo con me non lo faceva. Io non appartenevo al loro "rango". Non facevo parte di quella classe sociale.
Mi avviai verso l'ingresso. Buio, grigio, triste e malinconico. I ragazzi all'ingresso abbassavano gli sguardi per non incontrare quelli dei professori.
Ma io no. Io mi avvicinavo sempre a loro e li guardavo negli occhi e sembrava, a volte, che la mia tristezza influiva sulla loro felicitá di tornare a scuola.