6. I Will Wait

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Avvertenza: capitolo lungo e inteso, si consiglia di munirsi di calma e coraggio.

E metterò in accordo mente e cuore,

perciò prendi la mia carne e fissami negli occhi,

quella mente incatenata libera dalle menzogne.

(Mumford & Sons - I Will Wait)



Avete mai avvertito la sensazione che talvolta le novità non comportino niente di tanto avvincente e soddisfacente, se non un ammasso eterogeneo di guai? Perché i guai non sono per nulla avvincenti.

Ed il piacere, poi, cos'è? Ogni essere vivente ha una sua concezione in tal caso: c'è chi udendo il termine, affianca all'istante un'immagine di piacere carnale. Il sesso. C'è chi, con sguardo languido, da spazio alla fantasia e proietta nella mente un'enorme tavola invasa da buon cibo. Per continuare, c'è chi intende il piacere come una sorta di relax: una dormita, un massaggio che sia intenso, anche un'innocua passeggiata che, a dire il vero, aiuta soltanto nell'intento di abbandonare qua e là tra le vie di un piccolo paesino o di una grande metropoli l'adrenalina che, presto o tardi, va tramutandosi in rabbia.

Se in quel preciso istante mi fosse stato domandato quale, secondo il mio punto di vista, fosse la definizione di piacere, non avrei avuto di che rispondere. Già, perché era tanto accentuata quella forma di malessere che con estrema lentezza andava distruggendomi, che non avrei saputo ideare anche una semplice percezione del piacere. Continuavo a reprimere in me stessa il presentimento che un guaio avrebbe stravolto le nostre vite, dopo quella venuta imprevista, e a fingere che quel malessere fosse puro stupore.

Tutto avrebbe perso senso da lì a poche ore.

Lo riconobbi all'istante, quasi non fossero trascorsi anni dal nostro ultimo incontro. Si stringeva tra le braccia del mio migliore amico che pareva riaver acquistato il buon umore, mentre lo scorgevo nel dettaglio: possedeva profondi occhi di un'insolita sfumatura color mare, ma non l'abituale. Ricordava il mare dell'Antartide tanto opaco, quasi cupo, che riconduceva ai ghiacciai bianchi. I capelli di un castano quasi rossiccio erano sistemati con del gel in un ciuffo ben lavorato, pettinatura tipica del posto. Il fisico palestrato risaltava nei pantaloni stretti che ben conoscevo, perché persino Gabriele soleva indossare, e nella mezzamanica tanto aderente e nera che quasi si confondeva con la pelle abbronzata.

A dire il vero, però, lo ricordavo basso, mingherlino, con spalle minute e il viso appena scavato. Gli unici due dettagli che del ragazzino simpatico e conosciuto persistevano erano il luminoso sorriso con tanto di leggera fossetta sulla guancia sinistra e lo sguardo furbo. Ma se bene lo osservavo, nemmeno in quest'ultimo erano realmente presenti tracce d'infanzia, quelle che io scorgevo erano solo apparenze che ingannavano le vecchie conoscenze.

«Ti avevo promesso che ci saremo rivisti ed eccomi qui.» disse il nuovo arrivato, sorridendo al mio migliore amico. La sua voce era profonda e roca, dissimile dal ricordo che ne avevo: così squillante e vivace. Mi accorsi che del bambino con il quale Stash ed io giocavamo l'estate, quando i nostri genitori si recavano in villeggiatura per trascorrere i tre mesi estivi, non vi erano che le briciole. Il bambino impresso nella mia mente non rientrava più nell'individuo che contemplavo in quegli istanti. Quel bambino non era certamente quell'ormai divenuto uomo e quell'uomo non era il mio Antonio.

I suoi occhi color ghiaccio trovarono appiglio nei miei ed il fiato mi si mozzò, poi mi rivolse un sorriso e mi sorpresi a dover volgere lo sguardo altrove pur di contenere quel rossore intenso che aveva invaso le mie guance. Sperai con tutte le mie forze che a Mattia fosse sfuggita quell'incontrollabile reazione e che Stash prendesse controllo della situazione affinché il tutto tornasse alla normalità.

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