Trentaquattresimo

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Il tempo cura le ferite, il tempo è in grado di rendere plausibile un'accettazione troppo dura da affrontare.
Erano solo una marea di menzogne, perché Steve non riusciva a rassegnarsi all'assenza di Bucky. Ogni pomeriggio si sedeva sulla sedia di plastica difronte al soldato addormentato, e lo guardava, per ore. Ore che ben presto si trasformarono in giorni, settimane, e poi mesi.
Così tante giornate consumate dalla malinconia di quell'immagine, che parevano più sprecate degli anni che Cap aveva passato sotto il ghiaccio.
Fingeva di convincersi che se Bucky sarebbe morto, avrebbe trovato prima o poi la rassegnazione che tanto cercava, che desiderava in quel momento, ma sapeva perfettamente che non era così. Sapeva che si mentiva da solo.
In alcun modo sarebbe mai riuscito a dimenticare James, né se lo avesse saputo morto, né se lo avesse osservato addormentato.
Lui lo voleva con se, per sempre, finché ogni suo respiro non venisse perso, l'unica cosa che voleva era stare con lui.
All'inizio la situazione era gestibile; la mattina Steve si alzava, compieva i piccoli lavori che si svolgono ogni giorno, e poi passava a trovare Bucky. Si sentiva in obbligo, non poteva addormentarsi la sera sapendo di non averlo visto almeno una volta, ma allo stesso tempo, non riusciva a chiudere occhio pensando che fosse congelato in un laboratorio, piuttosto che nel letto assieme a lui.
Era gestibile, all'inizio. Poi aveva cercato di trovare delle soluzioni.
I medici più in gamba stavano lavorando senza sosta ad un farmaco per curare o, almeno, tenere a bada il soldato, senza comunicare progressi o grandi notizie a Steve.
Il capitano aveva ben pensato di sottoporsi allo stesso trattamento del compagno, addormentandosi accanto a lui, come era stato per quasi settant'anni, lo sarebbe stato ancora per molto in attesa di poter vivere assieme a James. Non sapeva quanti anni sarebbero passati, tantomeno se avrebbe mai potuto davvero riabbracciarlo.
Quale soluzione migliore se non quella di aspettarlo?
Ci aveva pensato tanto, e quel tanto lo aveva spinto a mettere in atto quel suo pensiero. Lo comunicò a Natasha, a Sam, ad i medici che si occupavano già di Bucky.
Ma nessuno lo assecondò in quella pazzia. Lo fecero ragionare, a mente lucida, gli fecero rendere conto che quella decisione spropositata non avrebbe portato da nessuna parte.
Eppure Steve aveva bisogno di Bucky. Troppo. Gli altri dicevano di capirlo, dicevano che la situazione si sarebbe risolta, ma non sapevano davvero cosa Steve avesse dentro, come si sentisse.
Talmente vuoto e arrabbiato, annegato dalla tristezza e dalla malinconia.
Lui lo disegnava, Bucky. Adorava sistemarsi comodo difronte a lui e copiare la sua immagine sul blocco schizzi dalla copertina nera.
Sorrideva ogni volta che finiva un suo ritratto. Sorrideva perché era rimasto più o meno lo stesso ragazzo di Brooklyn che si metteva in posa per i suoi disegni.
Lo fissò ancora, quel pomeriggio, dopo aver iniziato uno dei suoi tanti bozzetti a matita. Guardò Bucky, provando un senso di vuoto che non aveva mai provato prima in tutta la sua vita. Ebbe paura di quella sensazione così dolorosa e straziante.
Era così che avrebbe passato il resto della sua vita aspettando di trovare una cura?
Se le cose stavano in quel modo, non voleva più sopportarlo.
Perché Steve lo amava. Troppo.
Serio, chiamò lo staff medico che si occupava dei James, sicuro di ciò che gli avrebbe detto, sicuro che non avrebbe preso un'altra decisione affrettata o sbagliata.
«Scongelate Bucky.»
I presenti tramutarono la loro espressione sorpresa, compresa Wanda, che lo aveva seguito.
«James ha chiesto volontariamente di subire questo trattamento finché non troveremo una cura, dovremo rispettare la sua decisione.» intervenne un uomo di mezza età con un camice bianco, con tono sereno.
«Questo lo so bene, ma non possiamo lasciarlo sospeso in questo modo. Io voglio che viva la sua vita, anche con il rischio che comporterebbe. Lui ricorda, riesce a controllarsi, e credo sia sufficiente. Prederò io tutte le responsabilità, voi dovrete solamente continuare a lavorare sul vostro farmaco.»
Un coro di voci bisbigliati rimbombò nella stanza, mentre i medici discutevano in cerchio, e la Maximoff si avvicinò di più a Steve, preoccupata.
Di colpo, ci fu silenzio, e l'uomo che aveva parlato prima si fece avanti:
«D'accordo Capitano. Per noi è un maggior vantaggio, saremo in grado di monitorare lo stato di James, e questo gioverà a nostro favore sulla ricerca per una cura.»
Cap faticó a respirare, un grande sorriso gli marchió il viso, ed in un momento, quello che il tempo avrebbe dovuto fare, venne realizzato.
Wanda era accanto a lui mentre la teca di vetro in cui era chiuso Bucky si aprì, lasciando uscire una scia di vapore gelido, che riportò finalmente il soldato alla realtà.
Debole, ancora sotto l'enorme shock fisico, e scoordinato per il mancato equilibrio causato da un solo braccio, Bucky rischiò difinire per terra, se solo i medici e Steve non lo avessero preso.
Le mani forti di Cap lo strinsero per le costole, sostenendolo con sicurezza. Non riusciva a staccargli gli occhi di dosso, non riusciva a crederci, e fu quando il capo del soldato si voltò verso di lui, gelido e stordito, che un ingenuo sorriso tramutò l'espressione di entrambi, stringendosi in un abbraccio che apriva le costole.
Erano finalmente insieme.
Alcuni esami per accettarsi che le condizioni di Barnes fossero stabili, pochi trattamenti che lo aiutarono a rifocillarsi, ed il moro era già in gran forma, seduto intorno ad un piccolo tavolino a due posti difronte a Steve, in quella che sembrava una sala mensa dell'edificio, stranamente deserta.
Rogers poggiò sul tavolo una scodella di vetro con dentro delle prugne fresche affettate a spicchi, porgendogliela.
Bucky sorrise chinando il capo, intenerito da quel gesto. Spesso comperava quel frutto nei due anni in cui aveva vissuto nella sua solitudine, su una rivista di cucina stracciata aveva letto che sviluppava la memoria, ed anche se fosse una cosa stupida, tentare non costava nulla.
Ne prese un pezzo e lo mangiò, sotto lo sguardo incantato di Steve.
«Quanto tempo è passato?» domandò Bucky mandando giù un boccone.
«Quasi un anno.» Cap si bagnò le labbra, abbassando gli occhi.
Undici mesi e ventisette giorni.
Non aveva smesso mai di contarli quei dannati giorni. Tutte le albe e tutti i tramonti, tutte le ore e tutti i secondi. Li aveva smaltiti nella sua solitudine.
Bucky incrociò le sopracciglia, stranito.
«Ci avete messo così poco a trovare una cura?» domandò confuso.
Steve non rispose subito, cercò disperatamente di fuggire da quel discorso.
«In verità, non abbiamo ancora trovato nulla, ma possiamo aiutarti a controllarti e a tenerti lontano da qualsiasi tipo di pericolo che potrebbe farti avere una ricaduta...»
«Cosa?» quella domanda fece morire in gola le giustificazione che avrebbe voluto dire Steve.
«Perché lo avete fatto? Perché mi avete risvegliato?» nel suo tono, Bucky vacillò di paura e delusione.
«Bucky, vedi...»
«Me lo avevi promesso, Steve! Mi avevi fatto una promessa!» Bucky iniziò ad urlare, stringendo il pugno.
«Non potevo vivere senza di te! Ci ho provato!» rispose Steve con lo stesso tono, disperato.
«No! Non posso starti accanto se rischio di ucciderti! Non posso stare accanto a nessuno in queste condizioni!» sbraitò il moro tirandosi in avanti.
«Non me ne fotte un cazzo! Hai capito Bucky?! In tutti questi anni hai preso una parte di me! Ti ho avuto sempre accanto quando entrambi ne avevamo bisogno, mi hai dato tutto, io ti ho dato tutto, e adesso, adesso dopo averti finalmente ritornato, mi abbandoni ancora?!» gli occhi azzurri di Steve iniziarono a farsi lucidi.
«Non capisci! Porca puttana, davvero non capisci! Quello che potrò fare, quello che ho fatto! - Bucky iniziò a gesticolare avvampato dalla frustrazione- Non sono più quello di una volta, vuoi capirlo o no?! Non potrò mai più essere quello di prima!»
«Invece sì se iniziamo una vita normale, se ti lasci aiutare da me!»
«Non voglio il tuo cazzo di aiuto! Avresti dovuto lasciarmi congelato in attesa di una cura! Anzi, sai una cosa?! Avresti dovuto sparami, proprio nel tuo appartamento, per mano tua! Cristo, perché non mi hai ucciso?! Perché?!» il viso di Bucky diventó rosso, e le sue guance iniziarono a farsi umide per colpa di un misto fra sudore e lacrime.
«Perché ti amo!»
Silenzio.
Si guardarono respirando irregolarmente, entrambi con gli occhi lucidi ed il viso che accennava un luccichio bagnato a causa di lacrime trattenute a stento.
Il labbro inferiore di Steve iniziò a tremare: «Ti prego, ti prego non lasciarmi più. Sei l'aria che respiro.»
James sospirò, mentre il suo fiato venne tranciato da un singhiozzo.
«Sono un disastro, Steve. Un fottutissimo disastro.» tirò su di naso e aggrottò la fronte.
«Sei il disastro più bello del mondo.» gli rispose, ed entrambi sorrisero, con le lacrime agli occhi, sorrisero, come avevano sempre fatto.
«Hai lasciato dei segni indelebili nella mia mente e nel mio corpo, hai fatto l'amore con la mia mente fino a consumarla.» disse Bucky; cercò di mandare giù il grosso nodo alla gola, ostacolato dai singhiozzi strozzati.
Steve si avvicinò a lui, tremante, sfiorandogli gli zigomi con le nocche rosse, e allungando lentamente il viso verso di lui.
«Non perdiamoci più, ti prego Buck, ti prego.» Steve lo sussurrò con il naso rosso e le lacrime agli occhi, poggiando la fronte contro quella del soldato, che chiuse gli occhi.
«Ho bisogno del tuo aiuto, non ce la faccio più, non è vero quello che ho detto, ho bisogno di te.» Bucky si lamentò strizzando gli occhi, e lasciandosi scappare quel doloroso singhiozzo ormami impossibile da trattenere.
Steve gli prese il viso con tutte e due le mani, cercando di rassicuralo:
«D'accordo, d'accordo, andrà bene, insieme, ci sono io con te, non ti lascerò mai.»
James allungò l'unico braccio rimasto in un gesto che avvolse la forte schiena del capitano, che ricambiò immediatamente avvinghiandosi a lui con forza.
Era strano abbracciarlo e non avere un contatto anche con l'altro arto, ormai perso, attaccandosi ancora più disperatamente alla sua schiena ed affondando il viso fra il suo collo, tra l'odore dei suoi capelli color cioccolato.
Piansero, senza curarsi della situazione, per una volta, abbandonando il ruolo da soldati invincibili, lasciandosi inghiottire dai loro sentimenti, tenuti a freno per troppo tempo.
Respirarono pesantemente, quando Bucky riuscì a riprendere fiato, stringendo i capelli chiari di Steve, bisbigliando:
«Ti amo.»

Take me to Brooklyn ||Stucky|| ✔Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora