Il giorno seguente mi svegliai distrutto; con la schiena a pezzi ed un mal di testa allucinante. Me lo ricordo bene. Non potevo lamentarmi, però. Non ero abituato a farlo. Chi veniva dal South Side non era abituato a farlo.
Mi misi seduto e guardai dov'ero: durante la notte ero passato dal lato di Ian, senza volerlo. Sospirai, costatando che accanto a me non c'era nessuno. Mi alzai ed andai a fare una doccia; avevo appena trovato un lavoro abbastanza pulito in un bar. Certo, lo stipendio non era chissà cosa, ma sommato a tutti i lavoretti extra, legali e non, che facevo, riuscivo a pagare il mutuo, le bollette ed il cibo. Insomma, dovevo tenermelo bene. Una volta finito di prepararmi, uscii di casa e telefonai ad Ian. Sapevo che non mi avrebbe risposto, però volevo fare un tentativo. O due, o tre, o quattro...
Niente, non rispondeva.
Sempre più teso, scesi le scale e salii a bordo del vecchio catorcio che è la mia auto. Digitai sulla barra di ricerca del navigatore l'indirizzo del bar e partii, cercando di non perdermi. Dopo circa venti minuti ero ancora vicino casa, imbottigliato nel traffico assurdo del centro di Chicago. L'odiosa voce del navigatore non faceva altro che ripetere "Tra 300 metri, girare a destra" oppure "Se possibile, invertire il senso di marcia" ed io l'unica cosa che potessi e volessi fare era invertire i connotati di chiunque avesse creato quel navigatore ed andare a cercare Ian. Ma non potevo. Dopo un'altra ora straziante, arrivai a quello che era il mio posto di lavoro, con cinquantacinque minuti di ritardo. Caspita, non andiamo bene. Quando entrai, cercai di trovare Josh, il mio capo, ma fu lui a trovare me e farmi una lavata di testa. Poi mi disse di non arrivare più tardi o avrei perso il posto e di andare da un certo Bill. C'erano altri cinque camerieri, ma di questo Bill nessuna traccia. Chiesi ad uno di loro, se non sbaglio era Chace, che mi disse che avrei potuto trovare Bill in cucina. Con quello, scoprii che quel luogo non era un bar ma una sorta di ristobar. Ero sicuro sarebbe stata la mia fine, ero abbastanza negato in cucina. A casa, nella mia vecchia casa, quando avevamo del cibo, era sempre Mandy a cucinarlo.
Mi recai nella cucina e trovai un ragazzo riccio girato di spalle, dietro un bancone d'acciaio.
«Sei tu Bill?» chiesi. Il ragazzo si girò e mi guardò un po' scettico,con un sopracciglio alzato. «Sì, sono io...Tu sei quello nuovo,vero?» annuii. «Allora, lì c'è il grembiule, cerca di non macchiarlo; ai clienti non piace. Inizia col portare questo al tavolo 12.» mi disse, poggiando sul bancone un vassoio di plastica bianco.
-Simpatico- pensai. Indossai il grembiule, anche se feci un po' di fatica nell'allacciarlo, soprattutto sotto lo sguardo severo di Bill. Quel tipo non mi piaceva affatto ed io non piacevo a lui. Presi il vassoio e tornai nella sala all'ingresso, dove cercai il tavolo con il numero 12. Lì trovai seduto tre ragazze; due more ed una con i capelli rossi e delle leggere lentiggini sulle guance. Lei mi ricordò Ian e il fatto che era scomparso ed io avrei dovuto cercarlo. «Ecco le vostre ordinazioni.» dico, appoggiando il vassoio sul tavolino mal fermo e distribuendo, poi, i tre cappuccini e la brioche ripiena di cioccolato bianco. Sospirai appena al commento di una di loro, non vidi di preciso quale, che diceva
«Un altro poveraccio del sud...», lasciai loro il bigliettino con il conto da pagare e tornai in cucina. «Siete tutti così acidi nel North Side?» chiesi a Bill. «Siete tutti così acidi nel South Side?» chiese a sua volta l'altro. Non risposi, fin da piccoli non ci fidavamo di nessuno e trattavamo male chiunque non fosse come noi, perché in un certo senso ne avevamo il diritto.
Il mio turno finì tre ore più tardi, a mezzogiorno. Uscii il più velocemente possibile, cercando di non attirare l'attenzione di Josh o Bill, in modo da non dover rimanere fino all'una, com'era capitato a Chace. Tornato a casa, chiamai Ian, cercandolo in ogni stanza. Nessuna risposta. Gli telefonai e lasciai diversi messaggi in segreteria, dove lo imploravo di richiamarmi o rispondere almeno con un messaggio.
Lo imploravo di tornare a casa, di tornare da me.
Nessuno richiamò e non rispose neanche con un messaggio. Niente di niente. Mi buttai a peso morto sul divano e, tra un pensiero riguardante Ian ed uno riguardante una pizza con i peperoni, mi addormentai.
Mi svegliai ore dopo, nel bel mezzo della notte, e controllai il cellulare.
Ancora niente.
Non riuscivo più a stare tranquillo, mi alzai ed uscii di casa. Senza giacca, anche se il freddo umido della notte mi faceva rabbrividire. Entrai in macchina e guidai fino alla prima stazione di polizia che trovai. «Salve, vorrei denunciare una scomparsa...» annunciai, appena entrato. C'era solo un uomo dietro una scrivania, seduto su una sedia con le gambe accavallate ed il cappello dinanzi agli occhi. Russava talmente forte che lo avrebbe sentito anche un sordo. Cercai di svegliarlo, chiamando il nome che leggevo sulla sua divisa "L. Llynch", ma non si svegliava. Alla fine lo raggiunsi, oltre la scrivania, e gli tirai uno schiaffo. Allora si svegliò e -ti dico- aveva intenzione di arrestarmi. Ma gli descrissi velocemente il mio problema e chiamò due poliziotti che erano in servizio in quel momento, chiedendogli di perlustrare la zona alla ricerca di Ian. Avevo una sua foto nel portafogli e dovetti cedergliela affinché potessero riconoscere più facilmente il mio amico. Poi mi fecero alcune domande. La prima fu:"Chi è lei per il signor Gallagher?" Ed io non sapevo cosa rispondere.
Ero suo amico? Ma cosa stavo dicendo, quel ragazzo mi faceva letteralmente impazzire. Mandava in tilt il mio cazzo di cervello illegale e mi faceva sentire così...strano. Mi faceva stare bene,non mi metteva a disagio, ma era come se ogni cosa che facessi, la facessi per lui, affinché potesse e potessi piacergli. Allora risposi: «Il suo compagno. Amante. Famiglia, capisci?» e lui capì. Non potevo credere di averlo detto,ma era la verità.