4 || Poem

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     Picchiettavo la penna nera contro il mogano scuro del tavolo della cucina desolata.

Il silenzio mi circondava, tutto ciò che a tratti lo interrompeva era il rubinetto da cui grondavano piccole goccioline scintillanti; persino l'orologio di quarzo sul muro preferiva rimanere fermo che alterare la mia concentrazione.

Ero fisso sul foglio bianco bucato a lato del quaderno ad anelli, mentre tentavo di farmi venire qualche buona idea.
Finora, tutto ciò che ero riuscito a scrivere era finito accartocciato nel cestino della carta ormai pieno.

Strinsi la penna tra le dita lunghe e scarabocchiai con l'inchiostro sul rigo blu qualche parola improvvisata.
Mossi la punta della penna sul foglio liscio ripetutamente e mi illusi di star scrivendo qualcosa di senso compiuto, ma quando allontanai la mano dal foglio mi ritrovai ad aver disegnato un omino sorridente.

Tirai un sospiro e feci scivolare la penna lontano dalle mie mani sulla superficie del tavolo.
Non sarei riuscito a scrivere nulla, non finchè non mi sarei concentrato davvero.
Portai le dita sudate su cui era rimasto il segno della penna stretta alle tempie e massaggiai l'osso, chiudendo gli occhi.

"Vattene ora"

Mi voltai istintivamente, ruotandomi sulla sedia e guardai un punto indistinto alla ricerca di qualcosa. Qualcuno.
La mia visuale, però, era la solita del salone di casa mia, niente di estraneo ne occupava lo spazio. Nessuno.

Eppure potei giurare di averla sentita: la sua voce.
Per un attimo, credetti che in quella casa desolata potesse esserci anche lei.
Però, era solo un'illusione della mia mente caotica. Continuava a ripetersi la scena in cui mi mandava via.
Quella nella mia testa era una pantomima muta ed in bianco e nero.
Non mi aveva mai parlato direttamente prima di allora, sentirsi dire di non essere ben accetto era straziante persino per uno come me.

Fu allora che capii che ero pazzo, pazzo di lei.
No, frase fatta, ero in uno stato troppo confuso per descriverlo con una sola semplice affermazione.

Anche quando non c'era, io mi giravo a cercarla.
E sapevo che non era una cosa affatto sana, non per un ragazzo fidanzato.
Mi stavo interessando di qualcuno che nemmeno mi voleva.
Ero sicuro di sapere così tanto di lei, quando di lei conoscevo solo il nome.

-Annika- sussurrai amaro.

Ripetere il suo nome mentalmente non faceva lo stesso effetto che sentirlo, era un modo per assicurarsi che fossi ancora capace a percepire il mondo esterno quando parlavo di lei.

Il modo in cui la mia lingua si muoveva pronunciando il suo nome, il rumore sordo che faceva in me la sua voce, il modo in cui mi sentivo quando lei era nei paraggi.

Dispersi lo sguardo tra quelle quattro mura bianche. Bianche come la sua pelle.
Osservai come le pareti fossero spoglie, senza nemmeno una foto, forse per mancanza di tempo per appenderle, forse per qualcos'altro.

Poggiai la schiena contro la sedia in legno scomoda e buttai indietro la testa, sospirando contro l'atmosfera immobile.

Dovevo scrivere, qualcosa, qualsiasi cosa.
Solo per sentirmi più leggero, solo per esprimere a parole ciò che mi era difficile attraverso i gesti superficiali e calcolati.

Guardai l'orologio della classe di biologia, mentre le lancette facevano l'ultimo giro attorno al loro centro prima che rintoccassero le dodici.
All'ultima ora, avrei avuto letteratura e l'avrei rivista, nonostante lei probabilmente non fosse felice di vedere me.

"Venti, diciannove, diciotto..."

Afferrai il diario distrutto tra le mani e lo aprii alla data del 15 febbraio, scarabocchindo i compiti con una calligrafia illeggibile.
Nonostante questo, tenevo gli occhi fissi sulle lancette e con la bocca mimavo i secondi che mancavano al suono della campanella.

Indifferent↝Lorenzo Ostuni.Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora