Capitolo II: Runaway

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All You Never Say

Capitolo II: Runaway

"I was listening to the ocean,
I saw a face in the sand
but when I picked it up
then it vanished away from my hands.
I had a dream I was seven,
climbing my way in a tree,

I saw a piece of heaven
waiting, impatient, for me.
And I was running far away,
would I run off the world someday?
Nobody knows, nobody knows.
And I was dancing in the rain,
I felt alive and I can't complain;
but now take me home.
Take me home where I belong.

I can't take it anymore."

9 novembre 2014

Quella mattina, Harry si sveglia e cerca qualcuno tra le pieghe delle lenzuola, come fa sempre da un anno, ormai.

Era più facile quando Niall aveva deciso di dormire con lui per quasi un mese – non è tanto la mancanza di Elijah il suo problema, ormai, ma la mancanza di qualcuno in generale. Per sette anni aveva avuto una presenza confortante al suo fianco – qualcuno da cercare in quel momento in cui non dorme più, ma non è neanche sveglio del tutto – quel momento in cui sente il corpo pesante e la mente intorpidita, leggera, meravigliosamente vuota, anche solo per pochi attimi – uno di quei momenti in cui non si sente solo e ha bisogno di un calore che può solo trovare in qualcuno vicino a lui, nell'intreccio di dita e nel rannicchiarsi tra le braccia di un altro essere umano – la sensazione di non aver bisogno di aprire gli occhi, anche solo per alcuni minuti, perché si è esattamente in un posto che non si vuole lasciare.

Non sarà mai facile stare da soli, anche se Harry sa benissimo che questo sarà il suo futuro – è stato lui stesso a lasciare la sua Anima Gemella, è consapevole delle conseguenze – deve solo abituarsi.

Ci si abitua. Ci si abitua a tutto.

**

Quando inizia a correre, quella mattina, sente una sensazione diversa nelle membra.

Oggi Harry è arrabbiato. Oggi nelle sue vene scorre solo rabbia, cieca rabbia, verso tutto e verso tutti, scorre legata al suo sangue e si espande in ogni angolo del suo corpo – Harry spera che, lasciandola libera, possa scaricarsi sul cemento sotto le sue scarpe da ginnastica, come un fulmine, come una scossa elettrica.

Oggi ce l'ha con sé stesso, più di tutti. Per quello che si è lasciato fare, per quello che ha lasciato correre. Vorrebbe prendersela con qualcun altro – è sempre più facile rivolgere la rabbia verso qualcos'altro, piuttosto che contro la sua anima -, ma la realtà è che il suo più grande nemico è sé stesso – come può pretendere rispetto dagli altri quando lui non ne ha mai avuto per sé? Come può pretendere comprensione, quando non riesce a capire nemmeno lui cosa gli fosse passato nella mente, per tutto quel tempo in cui è stato con una persona che lo amava così, nel modo più sbagliato possibile?

Lo amava. Sì, certo.

Si odia, si odia, perché anche dopo un anno non riesce ad ammettere a sé stesso che lui non lo amasse. Ben glielo dice sempre – lui non ti amava, Harry, non si ama così -, ma la realtà è che la parte più profonda di Harry non è ancora in grado di ammetterlo. Perché ha sempre pensato che il problema non fosse l'amore in sé – Elijah è la sua Anima Gemella, dopotutto – deve averlo amato in un qualche modo, no? Non può essere stata solo una costruzione, un'illusione, un castello di carta che è esistito solo nella sua mente, giusto? Non è così che funziona. E anche dopo ogni litigata e ogni umiliazione e ogni insulto Harry non ha mai pensato che non lo amasse – solo che Elijah magari lo facesse in modo sbagliato – tutto quel dolore doveva avere un senso. Non riusciva neanche a pensare che tutto quel male che gli infliggeva, in realtà, non avesse nessuno scopo se non la pura distruzione, depersonalizzazione di Harry. Tutto per renderlo dipendente, fragile, patetico – l'ombra di sé stesso.

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