La mia camera era sempre stata il mio rifugio preferito. Le quattro pareti di casa rimanevano intime e rassicuranti permettendomi di concentrarmi meglio su qualunque cosa volessi, in genere delle letture approffondite sull'argomento di mio interessa di quel momento. Aberforth diceva sempre – citando un detto babbano a cui pareva esserci affezionato – che somigliavo ad un topo di biblioteca, sempre chiuso nella sua stanza a rovistare tra le carte in una maniera che «Neppure le capre quando vanno alla ricerca delle foglioline più tenere di un arbusto».
Ma altro non ero abituato a fare: io non ero come i miei fratelli, i quali erano abituati a stare all'aria aperta al contatto con la natura viva. Io avevo sempre trovato la pergamena dei libri e un tetto sulla testa molto più rassicurante. Però, nonostante questo, avrei davvero voluto compiere quel viaggio intorno al mondo insieme ad Elphias. I suoi gufi mi portavano delle missive davvero molto belle in cui egli descriveva le bellissime creature che incontrava e le strepitose magie a cui assisteva. Ed io ero bloccato qua, nella mia stanza senza nulla di davvero stimolante. Era una vita difficile.
Staccai lo sguardo stanco dal volume aperto del mio libro e lanciai uno sguardo oltre la finestra. Dalla mia stanza potevo vedere il giardino sul retro della signora Bath tutto contornato da fiori che mi parevano begonie. Ma quello che quel giorno catturò il mio sguardo non erano quei fiori.
Lui era là. Il ragazzo biondo che aveva fatto visita alla nostra casa la settimana appena trascorsa. I suoi capelli parevano brillare sotto la luce diretta del sole delle undici. Non capivo cosa stesse facendo: pareva che leggesse o che provasse qualcosa, forse un incantesimo. Aveva la bacchetta in mano e il volto serio, da quanto potevo cogliere da quella distanza.
Chissà cosa leggeva.
Chissà cosa voleva fare.
Chissà se si sentiva come me, frustato, solo e sprecato.
Io con i miei fratelli; lui con la sua prozia.
Che destino comune, pensai mentre lo osservai ancora un po'.
Era un ragazzo strano, da quanto ero riuscito a cogliere dall'unica volta in cui ci eravamo visti. Un ragazzo strano, ma dotato di intelligenza. Io amavo l'intelligenza, sapevo coglierla sempre dove alloggiava. E quel ragazzo, Gellert, ne era dotato in abbondanza. Le parole che lui mi aveva detto riguardo alla condizione di Ariana mi ero rimbombate nel cervello per giorni e giorni. E se avesse avuto ragione? E se avessi dovuto dargli ascolto?
Ma bastava sempre ragionarci su, in maniera critica ed intelligente, per bocciare assolutamente qualunque proposta in tal senso. Perché io sapevo dove egli
voleva andare a parare con quei discorsi e l'idea stessa mi faceva paura. Non avrei mai potuto, come erano state le sue parole?, «sovvertire l'ordine del mondo». Sarebbe andato contro i miei principi; non avrei mai dato addito ad una follia come quella...
Nonostante questo, avrei voluto conoscerlo un pochino di più. Chissà perché era qui, chi era, quali erano i suoi interessi, perché la signora Bath aveva voluto presentarmelo. Erano tante piccole domande sciocche, ma, ben presto, affollarono la mia mente.
Ritornai al mio libro e notai che le righe iniziavano a sovrapporsi nella mia testa, completamente offuscate dalle curiose domande che riguardavano la persona di Gellert Grindewald. Forse era giunto il momento di alzarmi da quella sedia, uscire da quella stanza e dirigermi verso casa Bath per soddisfare la mia curiosità.
Aberforth sarebbe stato fiero di me: per una volta il topo di biblioteca abbandonava la sua tana.
I miei passi risuonavano scricchiolanti sul pratino verde che separava il retro del giardino della mia casa con quello della signora Bath.
Lui era ancora là, coi capelli lucenti al sole e con un'espressione corrucciata, mentre leggeva un libro dalla copertina azzurra che aveva l'aria di non essere tanto
recente.
Con passo tranquillo, mi avvicinai allo steccato che divideva le due proprietà.
Gellert Grindewald sembrò accorgersi di me perché, in quel momento, alzò un attimo lo sguardo pensoso diretto verso la mia persona.
Mi fissò a lungo e non disse nulla. Lo sguardo ricadde sul suo libro.
Rimasi un po' deluso e decisi di fare io la prima mossa.
«Non è un po' strano trovare un mago nel giardinetto suo retro della casa della prozia» buttai lì.
Che frase sciocca e puramente banale.
Grindewald alzò ancora lo sguardo – stavolta più incuriosito di prima – con le mani che ancora reggevano senza fatica il tomo.
«Io vedo due maghi, su dei giardini sul retro differenti» rispose.
E non aggiunse altro.
Sentii il fastidio montarmi dentro. Certo che era proprio una persona non proprio disponibile. Ma la curiosità su chi fosse e che stesse facendo era davvero tanta.
Decisi di riprovare.
«Un mago che legge un libro in un giardino sul retro, concedimelo, è strano»
Un piccolo schiocco. Gellert Grindewald chiuse il volume e mi osservò con i suoi occhi verdi.
«Lo conosci?» domandò solamente.
Si avvicinò a me per permettermi di vedere al meglio il titolo del libro. Le lettere dorate sulla copertina blu notte recitavano:"Le fiabe di Beda il Bardo".
Eccome se le conoscevo: mia madre ci, anzi, mi leggeva sempre qualche fiaba tratta da quel libro. Mio fratello aveva sempre preferito Ghiozza la capra zozza. La mia fiaba preferita era quella che si trovava per ultima in ordine di collocazione: La storia dei tre fratelli", a mio parere un capolavoro assoluto.
«Sì» risposi, nonostante la burrasca di parole che avevo in testa. In genere, riuscivo sempre ad esprimermi liberamente, ma in quel momento vi era come qualcosa che mi bloccasse.
«La storia dei tre fratelli mi pare molto interessante» continuò lui, avevendo potuto constatare che io non avevo intenzione di aggiungere altro, oltre a quella banale affermazione. «E quando dico interessante, non parlo solamente del suo valore pedagogico, il quale, sì certo ci può stare, ma... se vi fosse qualcosa di più?»
Lo guardai un attimo. Quella sembrava una fantasia direttamente uscita dai miei sogni di bambino, quando mia madre mi leggeva la fiaba prima di andare a dormire. Da piccolo, avevo sempre sperato di poter riunire i Doni ed essere il Padrone della Morte. Avevo sempre visto per me onori e glorie.
«Qualcosa di più?» ripetei «Sarebbe molto bello davvero se esistessero questi... Doni. Ma è solamente una fiaba, Grindewald»
«Chiamami Gellert, il cognome si utilizza solo in un contesto scolastico» affermò come se stesse parlando del tempo «Perché non potrebbero esistere? Perché non ci potrebbe neppure essere la più remota possibilità?»
Alzai gli occhi al cielo per un momento, per poi rivolgermi a lui con queste parole:«Vi è stato un tempo, da bambino, in cui ho pensato sul serio che questi Doni esistessero davvero. Ma, crescendo, sono giunto alla conclusione che fosse solamente una fiaba con una sua morale, basta. Come potrebbero esserci degli oggetti così prodigiosi senza che il mondo magico ne venga a conoscenza? Dai Gellert, non è proprio possibile...»
«La mia prozia mi disse che eri un ragazzo intelligente, Albus Silente, ma non mi pare che questa intelligenza spicchi così tanto» dichiarò Gellert, provocatorio «Quale persona che reputato intelligente non va oltre i suoi stessi confini e i suoi stessi preoconcetti? Perché non puoi anche ammettere che potrebbe anche esserci una minima possibilità che i Doni della Morte esistano davvero?»
«Provami l'esistenza di uno solo di questi, allora» rimbeccai «Io ho creduto davvero tanto ai Doni e alla loro ricerca, così tanto che, ora, non sono più molto disposto a proseguirla. Persi solamente molto tempo allora, come ne perderò tanto anche adesso»
«Quanti anni avevi quando intrapresi la ricerca per la prima volta?»
Non risposi subito, mi vergonavo un po' ad ammetterlo. Ero stato davvero giovane e con mezzi non proprio copiosi per poter svolgere al meglio la ricerca. Ma la delusione di non essere riuscito nel mio compito all'epoca, mi aveva convinto a desistere per tutta la vita. Questo non avevo intenzione di riferirlo a quel biondino spavaldo che aspettava sornione una mia risposta.
«Ero molto giovane» dissi solamente, con un po' di furia che mi bruciava nello stomaco.
Gellert alzò un sopracciglio, con aria di sufficienza.
«Non dovresti mollare perché hai fallito una volta, Albus Silente» disse. Il suo tono era tranquillo in perfetto contrasto con l'espressione saccente che gli si era appena dipinta sul bel volto. «Ma dovresti cercare. Se riuscirò a portarti una sola prova, una sola soltanto, dell'esistenza di almeno uno dei tre Doni, prometti di ripensarci?»
Silenzio.
Non sapevo se accettare o meno: da una parte vi era l'orgoglio ferito di un infante Albus che premeva nel desistere; dall'altra, l'orgoglio bruciante di un giovane, ma adulto Albus che voleva accettare e dimostrare a Gellert che l'infante Albus aveva avuto ragione a suo tempo. Anche se, però, quella era la terza parte che parlava, avrebbe tanto voluto che il biondino trovasse la bacchetta. Avrei potuto dimenticare la mia condizione di fratello maggiore al confino e dedicarmi anima e corpo ad una causa nuova...
«Prometto».
Gellert sorrise. «Abbiamo un accordo.»
Gli strinsi la mano che mi porgeva, sentendo un lieve calore ai lombi.
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Per il bene superiore
FanfictionEstate 1899. Albus Silente progetta un grandioso viaggio alla scoperta delle infinite meraviglie del mondo magico insieme all'amico di una vita, Elphias Doge. Ma qualcosa di molto importante e doloroso accadde proprio quell'estate che costringe il...