Un vento impetuoso schiaffeggiava la superficie dell'oceano aprendo in essa sottili squarci e facendone sgorgare lacrime di candida schiuma. Un unico manto di nubi scure copriva il cielo fin dove vista umana potesse allungarsi, lugubre velo che metteva fine al gioco di successione tra giorno e notte, risolvendolo in un'unica, eterna oscurità. Si sarebbe potuto dire che in quel luogo non v'era notte come nel deserto non attecchiva la vita, che fosse una condizione naturale ed immutabile.
Sulla riva, accarezzato dalle dita più impavide che il mare protendeva, giaceva il corpo inanimato di un uomo vestito di stracci appesantiti dall'acqua e con profonde ferite ancora fresche sulle mani e sul viso. Un granchio stava per assaggiare la sua consistenza con una chela quando un tremito lo scosse da capo a piedi e gli occhi gli si spalancarono. Privo di forze, il viso in parte affondato nel suolo molle, per lunghi momenti si contentò di scrutare la piccola fetta di mondo che gli era concesso di vedere.
Che si trovasse su una spiaggia era ovvio, e notò anche un piccolo molo di legno al quale erano attraccate diverse barche da pesca. Dove si trovasse quella spiaggia e a che città appartenesse quel modesto porto non riusciva proprio ad immaginarlo.
Con un sforzo immenso di volontà, pregando di non avere niente di rotto, incominciò a puntellarsi prima sulle spalle e le ginocchia, poi sui gomiti ed infine sulle mani, trovando che mettersi in piedi non fosse mai stato tanto difficile e che, a ben vedere, era un operazione abbastanza complessa da meritare qualche trattato ad essa dedicato. Barcollò e si tenne forte la testa perché temeva che potesse esplodergli, socchiuse gli occhi per ridurre il dondolio che minacciava di farlo vomitare. Quando finalmente trovò una sufficiente lucidità e riuscì a stare del tutto eretto, poté vedere qualcosa in più del luogo nel quale era naufragato.
<<Dove diavolo sono finito?>> chiese a nessuno o al vento o al granchio di poco prima.
Si trovava al centro di una spiaggia che doveva misurare all'incirca seicento metri in larghezza e che si protendeva verso l'interno per almeno cinquanta. La sabbia era nera, di evidente origine vulcanica, ma non fu questo il particolare che attirò maggiormente la sua attenzione, bensì il villaggio che si adagiava tra questa e le ripide colline dell'entroterra, assaggio di una maestosa montagna della quale si poteva scorgere soltanto la sommità.
L'aspetto dell'abitato non differiva da quello di moltissimi borghi marinari nati col miraggio della ricca pesca ed imprigionati dalla delusione: file disordinate di casette in legno e baracche fatte di lamiera si alternavano di rado con abitazioni in pietra vulcanica dall'aspetto signorile e antico; stradine in acciottolato o terra battuta, illuminate da pochi lampioni di foggia ottocentesca, si inerpicavano verso il centro del villaggio, dominato da una chiesa imponente e dal suo alto campanile.
L'uomo si tastò le tasche, alcune delle quali sfondate, con un'urgenza disperata. Sospirò, sollevato, non appena trovò il telefono satellitare chiuso nella sua custodia impermeabile, tuttavia quell'urgenza non si attenuò. Premette il tasto d'accensione e si guardò intorno furiosamente mentre attendeva, poi cercò sullo schermo, in basso a destra, data e ora attuali. 10/15/2010, 16:43 p. m.
La datazione internazionale gli diceva che era ancora il 15 del mese d'ottobre e l'ora non fece che aumentare la sua incredulità. Era naufragato appena tre ore prima in un punto dell'oceano distante migliaia di miglia dalla terraferma più vicina, perciò quella sabbia nera nella quale affondava i piedi non doveva esistere.
Provò a contattare i soccorsi, ma tutto ciò che udì dal telefono furono violente scariche elettromagnetiche.