La Chimera

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Una notte d'estate.
Uno studio in ombra.
La ricerca spasmodica
di ciò che non esiste.

* * *

Quando la bambina attraversò la soglia del suo studio, era da poco scesa la notte. Samuel Scarborough era chino sulla scrivania, le lunghe dita nodose serrate attorno a una penna. Il suo corpo sarebbe stato nudo se non fosse stato per un paio di boxer consunti e il calzino spaiato che gli fasciava il piede sinistro. La colonna vertebrale gli premeva contro la pelle come a volersi liberare di quella prigione di carne.
La bambina osservò la stanza con occhi spenti; il suo sguardo opaco si posò sugli scaffali addossati alle pareti, sul dorso dei libri ammucchiati in un angolo, sui blocchi di appunti e le cianfrusaglie che sembravano voler soffocare quell'uomo assorto in una cappa di carta e polvere. Un fuoco fatuo si dibatteva tra le pareti di vetro di un contenitore: la sua luce, flebile e bluastra, bagnava ogni cosa calandola in un'atmosfera irreale.
Samuel cessò di scrivere. Alzò la testa e si voltò verso la porta. Un brivido gli lambì la spina dorsale con artigli di ghiaccio. La bambina era ferma sulla soglia: il suo viso, pallido come porcellana, era incorniciato da una cascata d'ebano. C'era qualcosa di strano in quel volto bianco privo di segni e colore, qualcosa di alieno, di artificiale.
«E tu chi sei?», le chiese Samuel, abbandonando la penna sulla scrivania. Si alzò in piedi. Le sue gambe ceree erano stuzzicadenti ricoperti di peli ispidi.
La bambina ignorò la sua domanda. «Tu sei Samuel Scarborough?»
L'uomo annuì gonfiando il petto. «Sì, sono io. Tu chi sei? È tardi, una bambina della tua età non dovrebbe andarsene in giro da sola». Il sospetto gli adombrò il viso. «Come sei entrata in casa mia?»
Lei lo ignorò ancora. «Olaf, Kristen!», chiamò ad alta voce, senza distogliere gli occhi chiari dal volto dell'uomo che le stava di fronte. «È qui, nello studio».
Un uomo e una donna, vestiti di nero dalla testa ai piedi nonostante la calura asfissiante, entrarono nella stanza. Le domande di Samuel furono soffocate da Kristen, che gli premette un fazzoletto contro bocca e naso: bastarono pochi secondi affinché l'uomo fosse sopraffatto dalla sostanza di cui la stoffa era imbevuta. L'oblio lo avvolse tra le sue spire e il suo corpo crollò sul pavimento con un tonfo sordo, sollevando una nube di polvere. Olaf tossì affondando il volto nell'incavo del gomito.
«Andate», disse la bambina avvicinandosi alla scrivania dello studioso. «Vi raggiungo subito».
Kristen e Olaf annuirono, sollevarono Samuel e lo portarono via. La bambina sfiorò la superficie di legno con le piccole dita bianche e osservò la moltitudine di oggetti disseminati per la stanza. Uno scintillio metallico attirò la sua attenzione: un sestante giaceva abbandonato sulla poltrona accanto alla finestra. Lei lo afferrò e se lo rigirò tra le mani, assorta. Aveva fatto la sua scelta.

«Cosa avete intenzione di fare?» Samuel strattonò le cinghie che lo legavano al tavolo operatorio, una rozza superficie metallica dotata di passanti di cuoio tirato a lucido.
«Ho fatto delle ricerche», gli rispose la bambina. Se ne stava seduta sul bordo di una sedia imbottita, le gambe accavallate in una posizione che non si addiceva alla sua giovane età. «Tua madre era una strega, non è così?»
Samuel si irrigidì. Sollevò la testa e lanciò un'occhiata alla porta chiusa, grugnendo per lo sforzo. Dall'esterno provenivano un vociare sommesso e il rumore di acqua corrente.
La bambina riprese: «I figli maschi di una strega non ereditano i suoi poteri».
Un grido lacerò l'aria, ma venne soffocato nel giro di pochi secondi. Samuel cominciò a tremare. Il suo volto era una maschera di terrore. Nei suoi occhi neri si accese una scintilla. «Ti ha mandato Cruz?», chiese. «Non ce li ho i suoi soldi, mi serve più tempo».
«Non mi manda nessuno».
«Sei della polizia? Io non ho fatto niente, non sono come mia madre».
«Hai qualcosa che mi interessa».
«Cosa?», le chiese lui in un sussurro a malapena udibile. La sua voce era un rantolo, un flebile lamento.
«La Vista».
Olaf entrò in quel momento, il corpo tozzo fasciato nella stessa tuta nera che Samuel gli aveva visto addosso nel suo studio. Quegli abiti avvolgevano l'uomo come una seconda pelle, celando alla vista ogni cosa al di fuori dei suoi occhi chiari, grigi e acquosi come pozzanghere. Olaf stringeva tra le mani un mucchio di strumenti metallici e acuminati. Li lanciò sul tavolino addossato alla parete e quelli produssero un tintinnio allegro.
Samuel sbiancò. «Cosa volete farmi?», chiese. I suoi occhi neri saettarono dal viso pallido della bambina a quello nascosto di Olaf. «No!», gridò, la voce stridula e graffiante. I suoi tremiti divennero convulsioni. Strattonò le cinghie di cuoio con maggior vigore e queste lasciarono solchi profondi sulla sua pelle. Il sangue cominciò a colare dalle ferite, ma lui continuò a dibattersi con violenza. Olaf afferrò un arnese simile a un piccolo coltello e gli si avvicinò. In quel momento, la bambina si alzò in piedi e lasciò la stanza. Quando si fu chiusa la porta alle spalle, le grida laceranti di Samuel Scarborough la seguirono lungo il corridoio.

La bambina accarezzò il profilo del suo nuovo trofeo, il sestante dorato che aveva sottratto all'ultimo donatore. Lo aveva messo sullo scaffale più alto della sua collezione, tra una collana di piume di Garuda e una scarpetta da ballo rivestita di scaglie iridescenti.
«Questo corpo è uno strazio», disse e tornò a sedersi sulla poltrona posta al centro della stanza.
Kristen, in piedi sulla soglia, chinò il capo. Anche lei, alta e filiforme, era celata alla vista da indumenti scuri. «Si sistemerà tutto, mamma», disse. «La ninfa che hai scelto era giovane».
La bambina annuì, assorta. Kristen le si avvicinò. Con un unico movimento aggraziato le si inginocchiò accanto. I suoi occhi incrociarono quelli di sua madre, iridi nere come pozze di ossidiana. «Il trapianto ha avuto successo. Siamo vicini, ormai».
«Vicini?» La bambina serrò le palpebre e scosse la testa. «Ho l'impressione di essere di nuovo al punto di partenza. C'è sempre qualcosa che mi manca, Kristen. La perfezione è una chimera, un'ombra sfuggente che non riesco ad afferrare».
Kristen strinse le mani della bambina tra le sue. «Cos'altro desideri?», chiese, la voce rotta. Sua madre strinse la mascella, trattenendo le lacrime.
Quante volte ancora avrebbe vissuto quel momento? La sua vita era un eterno déjà-vu: la ricerca spasmodica della perfezione era il motore che la teneva in vita e, allo stesso tempo, il fuoco che la consumava. Al termine di ogni nuova caccia lei sedeva lì, su quella poltrona, circondata dagli oggetti che le ricordavano la sua missione; Kristen le si sedeva accanto e le poneva quell'unica domanda: «Cos'altro desideri?»
C'era sempre una risposta, un nuovo obiettivo, una nuova preda. La caccia sembrava destinata a durare in eterno.
La bambina sospirò e si alzò in piedi. Si voltò verso la finestra alle sue spalle. Dalle imposte spalancate entrava una calda brezza estiva che le solleticò il viso e le scompigliò i capelli, rivelando un paio di orecchie a punta e alcune pallide cicatrici. Lei le sfiorò con la punta delle dita, gli occhi neri fissi sullo spettacolo che le si presentava di fronte: la città dormiva e il suo sonno era vegliato dalla luce dei lampioni, che punteggiavano le strade come stelle cadute.
La bambina osservò la luna e allungò una mano come per sfiorarla. La ritrasse subito, quasi si fosse scottata. Il profilo di un uccello notturno attraversò la volta del cielo. Lei distolse lo sguardo e una calda lacrima le rigò la guancia. Quando parlò, nel silenzio che regnava incontrastato, la sua voce era sottile e tremula come un soffio di vento.
«Voglio le ali di un angelo».

Concorso: Tre Parole, Una StoriaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora