Porte Chiuse

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A volte
ciò che si frappone
tra noi e i nostri sogni
non è una porta,
ma la paura di attraversarla.

* * *

Neska rimestò la minestra con il cucchiaio di metallo stretto tra le dita d'ebano. Il tintinnio delle posate faceva da sottofondo a una cena altrimenti silenziosa, consumata nel salone del palazzo, attorno a un tavolo di mogano, lunghissimo nonostante a cenare fossero solo in tre. Le luci di decine di candele rendevano densa l'atmosfera nella stanza, gettando tutt'intorno ombre lugubri e distorte.
«Ed è così che ho ottenuto il ribasso delle azioni, amico mio», disse la Volpe, masticando un boccone di carne. Il suo muso affilato era sporco di sangue.
«Davvero interessante, Volpe», commentò il Ratto, i piccoli occhi scuri incollati all'etichetta di una confezione di formaggio aromatizzato. «Splendida manovra di aggiotaggio. Sono sempre più stupito del fatto che tu non sia in galera, vecchio mio. Io non avrei mai avuto il coraggio di fare ciò che hai fatto».
La Volpe ridacchiò e si ripulì. «Roditori!», esclamò con un ghigno. «Vi concentrate sulle cose sbagliate. I vostri occhietti ciechi possono fissarsi su una sola cosa alla volta e, di solito, si tratta dell'unica cosa cui non dovreste pensare».
Neska alzò gli occhi al cielo, ma non disse niente. Continuò a rimestare nel suo piatto, lo stomaco chiuso, la gola carezzata da un vago senso di nausea. Avrebbe voluto alzarsi e tornare nelle sue stanze; ciò che la tratteneva era il timore di offendere suo marito e il suo ospite dal manto fulvo. Non aveva voglia di affrontare le conseguenze di quel gesto.
«Mi stai dicendo», continuò il Ratto, ancora concentrato sull'etichetta, «che i rischi sono una cosa non meritevole di attenzioni?»
La Volpe liquidò l'amico con un gesto della mano. «Sono un mero ostacolo sul sentiero che conduce alla felicità».
Il Ratto sbuffò, abbandonando la confezione di formaggio sul tavolo davanti a sé. Schioccò la lingua per richiamare l'attenzione di Neska e le fece cenno di avvicinarsi. «Tesoro, ti spiacerebbe controllare gli ingredienti?»
Neska roteò gli occhi. «Ne abbiamo già discusso: non contiene nulla che potrebbe causarti uno shock anafilattico». Purtroppo, aggiunse nella sua mente.
«Non si sa mai. Non ti costa nulla controllare, amore mio».
Neska fu attraversata da un brivido di disgusto. Si alzò in piedi e afferrò la confezione di formaggio. Nel frattempo il Ratto tornò a rivolgersi alla Volpe, china sul suo piatto, i denti affondati nella carcassa sanguinolenta che aveva di fronte. Il rumore di strappi e carne lacerata aveva sostituito il tintinnio metallico di poco prima. Il Ratto si agitò sulla sedia. «Anche Emil la pensava come te, Volpe», tossì, «e non mi pare abbia fatto una bella fine».
«Emil era uno sciocco, ora posso dirlo».
Era il tuo migliore amico, pensò Neska, e davanti agli occhi rivide il corpo della Gazza: era riverso sul selciato, davanti al barbacane del Castello Grigio, con il torace dilaniato e gli occhi vitrei.
«Dici che lui era uno sciocco? Che bassa opinione devi avere di me, allora!» Il Ratto scosse la testa e sottrasse la confezione di formaggio alle mani tese di sua moglie. «Grazie, cara. Dicevo, Volpe, che Emil non era affatto uno sciocco».
«Lo era abbastanza da lasciarci le penne». La Volpe bevve un sorso di vino rosso e si leccò il muso con un verso di approvazione. «Per il resto, so per certo che il caro Emil ha solo seguito la sua devozione, anche se la fede non è servita a salvarlo dal suo triste destino».
Il Ratto aggrottò le sopracciglia. «Fede? Emil non era un tipo religioso. Che Dio abbia pietà della sua anima».
«Parlo dell'unica fede che abbia una qualche rilevanza nel nostro mondo, Ratto: il culto del Dio Denaro, è ovvio».
«Questo è discutibile». Il Ratto scosse il capo con veemenza, spostando il peso avanti e indietro sulla sedia e toccando il crocifisso d'argento che portava appeso al collo. «Nessuno sa cosa ci aspetta dopo questa vita, Volpe. Credere in Dio non costa nulla o quasi, ma la ricompensa è grande».
«Forse, forse no. Ci penserò quando arriverà il momento. Quando sarò sul mio letto di morte avrò tutto il tempo di chiedere perdono per i miei peccati».

«Che faccia tosta», borbottò il Ratto, sedendosi sul ciglio del letto. Neska si sfilò la collana di perle che le adornava il collo e attese che suo marito continuasse. Il Ratto riprese: «Volpe crede di avere in mano le chiavi dell'universo. Andrà all'Inferno, parola di ratto. Non che non se lo meriti». Si distese con un verso strozzato e si tirò le coperte fino al muso. «Farà la fine che gli spetta, quel farabutto».
Neska rabbrividì. Tu lo meriti quanto lui, pensò. Quanti morti hai sulla coscienza? Quante famiglie distrutte? «Vado un attimo in bagno», disse. Suo marito non le rispose e lei uscì dalla stanza, spegnendo la luce e poi chiudendosi la porta alle spalle. Percorse il corridoio buio in punta di piedi, scese due rampe di scale e si ritrovò di fronte alla porta scheggiata che conduceva agli alloggi della servitù. Non erano che le dieci e la donna poteva sentire, al di là della soglia, il chiacchiericcio indistinto di Oca e Pecora e le loro risate soffocate provenire dall'ultima stanza sulla sinistra. Spinse piano l'uscio e si affrettò ad entrare nella seconda camera sulla destra: se l'avessero vista avrebbero raccontato tutto al Ratto.
«Neska!» La voce del Gabbiano le giunse all'orecchio, seguita da un fruscio di stoffa e piume. «Cosa ci fai qui? Avevi detto che non saresti più tornata».
«Devi aiutarmi», disse la donna in un soffio, portandosi le mani alla gola. «Mi sembra di soffocare».
«Sta' calma». Il Gabbiano la raggiunse e la strinse a sé. «Andrà tutto bene, devi solo stare calma, adesso. Non gridare, non piangere; Oca e Pecora sono ancora sveglie, non voglio che ti sentano». Neska annuì contro la sua spalla e lasciò che due lacrime silenziose le scivolassero lungo le guance. Il Gabbiano sospirò e le scompigliò i ricci capelli neri. «Era da settimane che non venivi a trovarmi. Credevo ti fossi arresa, ormai».
«Non posso più stare qui».
«Allora va' via, Neska. Sei troppo giovane per morire in questo vecchio palazzo, circondata da bugiardi e dalle loro ipocrisie. Va' via e sii libera».
Neska scosse la testa. «Non posso».
Il Gabbiano la allontanò quanto bastava per guardarla negli occhi: quelli di Neska erano rossi e gonfi di pianto, animati da un'inquietudine profonda che le si rifletteva nelle iridi scure. «Sei così bella, Neska, e così giovane; non lasciare che ti facciano ciò che hanno fatto a me».
Neska non ebbe bisogno di chiedergli nulla: il ricordo delle ali che gli erano state tarpate era ancora leggibile nel suo sguardo spento. «Io non sono sicura che non l'abbiano già fatto, Gab».
«Non dirlo neanche per scherzo. Ora ascoltami: tu hai una possibilità. Tu puoi andartene di qui e vivere una vita normale, puoi avere un futuro migliore di questo. Fa' ciò che ti dico: domani tocca a me chiudere le porte e serrare le finestre per la notte. A mezzanotte raggiungi l'entrata sul retro, quella nelle cucine: la troverai aperta. Fuggi e non guardarti indietro».
«Cosa ne sarà di te?»
«Non pensare a me. Ti prego».
Neska impallidì e, quando rispose, la sua voce era flebile e venata di incertezza: «Farò come mi hai detto, Gab. Grazie».

Erano le dieci e venti di sera. Neska era già sdraiata nel grande letto matrimoniale e fingeva di leggere un libro. La copertina rigida del tomo continuava a scivolarle lungo i palmi sudati delle mani, che lei asciugava contro le lenzuola a intervalli regolari.
«Sempre a leggere, tu!» L'apostrofò suo marito, sfilandosi il panciotto di velluto. «Non condivido il tuo bovarismo esasperato, moglie mia. Dovresti abbandonare certe fantasie e vivere la realtà, invece di perder tempo».
Neska non rispose. Suo marito non immaginava quanto la sua sete di libertà fosse profonda, quanto avesse scavato nel suo animo in quegli ultimi mesi d'inferno.
«Sbrigati e spegni la luce», bofonchiò lui, infilandosi sotto alle coperte. La donna attese che il respiro del Ratto si facesse lento e regolare. Abbandonò il talamo e percorse lunghi corridoi privi di illuminazione, finché non fu davanti alla porta che conduceva all'esterno: l'unica porta aperta in quel mondo fatto di chiavistelli e lucchetti di metallo. Neska spinse l'uscio: la brezza autunnale le solleticò il viso e le scompigliò i capelli. Lei osservò il sentiero di ciottoli che dalla soglia avanzava verso i giardini del Palazzo. Immaginò di percorrerli a passo svelto, di raggiungere il box accanto ai cancelli e di rubare un mezzo di trasporto. Sarebbe andata in città e lì avrebbe cercato sua sorella: chissà se stava ancora bene.
Il cuore le martellava nel petto. Prese un respiro profondo e si avvicinò al battente di legno. Il fiato le si condensava davanti al volto in piccole nuvolette bianche. Fece un passo e posò una mano sullo stipite. Gli occhi cominciarono a bruciarle, punti dalle lacrime. Le gambe sembravano sul punto di cedere sotto il suo peso.
Con dita tremanti, Neska tirò a sé il pomello dorato, aggiungendo l'ennesima sbarra alla sua prigione.

1500 PAROLE

Concorso: Tre Parole, Una StoriaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora