La Città Morta

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Ci sono prigioni
che non hanno sbarre:
esse sono fatte
di pensieri, di ricordi, di paure;
alcune hanno tutto l'aspetto
di un sogno.

*   *   *

Passi incerti risuonano nella tromba delle scale. Andrea distoglie lo sguardo dalla città silente, distesa sotto la volta celeste come un corpo esanime: essa è senza vita, il volto di pietra sferzato dalle luci dei lampioni. Le strade vuote sono cicatrici d'asfalto, gli edifici si innalzano al cielo come pallide dita; le finestre di una cattedrale scintillano, lacrime di vetro incastonate nella roccia.
I passi si fanno più vicini, meno incerti. Andrea tende le orecchie. Il suo cuore accelera e il volto gli si trasforma in una maschera bianca.
È troppo presto.
La finestra si spalanca sulla città morta. Andrea grida e si contorce: ali cremisi gli si fanno strada attraverso la carne, lacerandogli i vestiti, ma al dolore si sostituiscono l'urgenza di fuggire e la smania di lasciarsi alle spalle il fantasma oltre la soglia. Andrea spicca un salto e si libra nella notte, così in alto che all'orecchio gli giungono i sussurri delle stelle. «Torna indietro», gli dicono, ma lui schiocca le dita e quelle esplodono in una cascata di piccole scintille. La morte non è mai stata tanto bella.
Andrea distende le ali, le piega, le distende ancora. Il vento gli scompiglia i corti capelli biondi e gli fa lacrimare gli occhi, ma lui continua ad avanzare sulla metropoli che, sotto di lui, brulica di miriadi di insetti: l'aria è satura del loro ronzio, del vibrare di milioni di ali.
«Sai che l'alba si avvicina», mormora un centopiedi, affondando le zampe nelle mura di un grattacielo. Andrea stringe la mascella. Basta un suo sguardo e l'edificio collassa su se stesso, riducendosi a un cumulo di macerie. La mostruosa creatura ride di scherno e muore, soffocata dal cemento.
«È ancora mezzanotte», sussurra Andrea, ma il dubbio gli scorre dentro come veleno. All'orizzonte si scorgono le prime luci e il suo controllo comincia a vacillare. «È ancora mezzanotte!», ringhia. Atterra sul tetto di un palazzo e si accascia al suolo, stringendosi il petto con la mano.
Il sole sorge a occidente. La città brucia sotto gli occhi del suo Dio.

Il risveglio fu traumatico. La realtà gli si riversò addosso come una fiera, gli artigli protesi in avanti, i denti affilati pronti a serrarsi attorno alla sua gola. Andrea scattò a sedere e inspirò a pieni polmoni. Il suo corpo scheletrico fu scosso da un accesso di tosse secca e raschiante che lo costrinse a piegarsi in avanti, gemendo. Si portò una mano al collo e notò che la siringa era ancora al suo posto, l'ago infilato nell'incavo del suo braccio. Lo sfilò con un solo movimento e si adagiò contro la parete della cantina. Chiuse gli occhi e una lacrima gli solcò uno zigomo affilato.
«Devo tornare indietro», disse, la voce rotta dalla sofferenza. Il bisogno gli si agitava nel petto, si gonfiava e gli comprimeva gli organi con prepotenza. La nausea gli ribaltò lo stomaco e Andrea si chinò di lato, vomitando nonostante non avesse toccato cibo, quel giorno. Quando ebbe terminato si ripulì la bocca con il dorso della mano e afferrò l'astuccio di stoffa che giaceva abbandonato al suo fianco. Ne estrasse una provetta e una siringa, identica a quella che aveva gettato sul pavimento poco prima. Svuotò il contenitore e fece un respiro profondo. Affondò l'ago nella carne con un mugolio sommesso.

Le mani di Giorgio gli accarezzano la schiena. Sono ruvide e calde e gli lasciano scie incandescenti sulla pelle, lì dove si posano. Andrea freme e sorride contro la sua spalla. «Mi sei mancato così tanto», mormora.
Giorgio non risponde, ma lo stringe più forte contro il petto e gli bacia la fronte, sfiorandogli la guancia con il dorso delle dita. Andrea sospira contro quel contatto e per un secondo la perfezione del momento lo riempie come luce, oscurando tutto il resto. Dura solo un attimo, poi il suono di passi incerti si diffonde nella tromba delle scale. Andrea spalanca gli occhi e tutto ciò che il suo sguardo incontra è una parete, contro cui si staglia il profilo di una porta chiusa. La maniglia si abbassa con un cigolio sinistro. Andrea stringe i denti.
È sempre troppo presto.
La figura che si staglia sulla soglia ha il suo stesso volto, ma il suo corpo è affilato e magro, provato dal digiuno e dalla sofferenza. «Sei di nuovo qui», dice, la voce gracchiante, consumata.
«Questo è il mio posto». Andrea arretra di qualche passo. «Non il tuo. Vattene».
«Ciò che è tuo mi appartiene». Il volto dell'Altro si contrae in una smorfia. «Non puoi mandarmi via».
«Lo so cosa sei venuto a dirmi».
«Questo non è reale. Torna indietro».
«No». Andrea scuote la testa. «Non è come dici tu. Questo è più reale di tutto ciò che c'è lì fuori».
L'Altro si stringe le braccia al petto e curva la schiena. «Torna indietro», mormora, affondando le unghie nella carne.
Andrea grida. La stanza si sgretola, diventa polvere, e l'oscurità stringe ogni cosa nel suo freddo abbraccio.

Andrea riempì la siringa con mani tremanti. Sentiva la furia circolargli nel sangue e infiammargli le arterie.
«Questo mondo l'unica illusione», disse. Lo ripeté come un mantra, colpendo il cilindro trasparente e armeggiando con lo stantuffo per eliminare eventuali bolle d'aria. Si conficcò l'ago nel petto. Il dolore fu seguito dell'incoscienza.

Andrea smonta l'orologio a molla e ne dispone i pezzi sul pavimento di legno: le lancette, il rocchetto, la molla di carica e gli altri componenti sono ordinati dinanzi a lui in una fila lucente. L'Altro osserva la scena da un angolo della stanza, seduto di fronte a un pianoforte, le labbra piegate verso il basso.
Andrea alza gli occhi. «Tu dici che questo mondo non è reale», gracchia, indirizzandogli un'occhiata in cagnesco.
«È nella tua testa», risponde l'Altro, annuendo.
Andrea si alza in piedi. «Questo lo rende meno reale? Le emozioni che sento sono le stesse che ci sono lì fuori, ma qui posso controllarle; controllo tutto ciò che esiste, perché ciò che esiste l'ho creato io. Io sono Dio».
«Un Dio misantropo, divinità codarda che per sfuggire al dolore si barrica nell'inconscio». L'Altro piega la testa e punta gli occhi sulla finestra spalancata. Il paesaggio è lo stesso che ha già visto decine di volte: il cadavere di una città, riverso sotto la volta del cielo. «Hai creato la tua prigione onirica e ci marcisci dentro come una carogna».
«Prigione?» Andrea stringe i pugni. I pezzi dell'orologio si sollevano e lo strumento si ricompone, fluttuando al centro della stanza. «Questo è il luogo in cui sono davvero libero». Allunga una mano e punta un indice contro il quadrante dell'oggetto: le lancette si immobilizzano per una frazione di secondo, poi riprendono a girare, questa volta al contrario. La luce nella stanza muta: quella della luna sfuma, sostituita dai toni caldi del tramonto, da quelli accesi del primo pomeriggio; poi arriva l'alba ed è di nuovo notte. Andrea lascia ricadere il braccio lungo il fianco. «Credi ancora che questa sia la mia prigione?»
L'Altro abbassa la testa. «Tu credi ancora che non lo sia?» Osserva i tasti del pianoforte e li sfiora con un dito. Una nota solitaria risuona nella stanza.
«Cosa stai facendo?», chiede Andrea. Lo stomaco gli si contorce. L'orologio si schianta sul pavimento in un'esplosione di cocci e pezzi metallici. Fuori la pioggia comincia a scendere.
«Hai smesso di suonare», dice l'Altro senza guardarlo. «Hai smesso di suonare perché farlo ti ricordava lui».
Andrea arretra di un passo. Cocci di vetro sono disseminati tutt'intorno a lui, che li calpesta senza quasi rendersene conto. Il dolore gli si arrampica lungo le caviglie, mentre una voragine gli si apre al centro del petto.
Hai smesso perché ti ricordava lui.
«Smettila».
L'Altro scuote la testa. Le sue lunghe dita continuano ad accarezzare i tasti del pianoforte. Una melodia costante è tutto ciò che producono e lui alza gli occhi senza smettere di suonare. «Sai cos'è?»
Andrea stringe i pugni. La voce di Giorgio gli giunge alle orecchie da un altro tempo, lontano e inaccessibile: «È una scala pentatonica di Do maggiore», gli dice e Andrea pronuncia quelle stesse parole senza riuscire a trattenersi. Flashback confusi gli passano davanti agli occhi: una stanza piena di luce, dita che danzano su tasti bianchi e neri.

«Mi insegneresti a suonare?»

La risata di Giorgio, così limpida.

«Non sai niente di musica».
«Perciò ti ho chiesto di insegnarmi, no?»

Poi il suo volto devastato dalle botte, solcato dalle cicatrici, sporco di sangue.
Andrea si accascia al suolo. Frammenti di vetro gli graffiano la pelle. Il liquido cremisi che cola dalle sue ferite si mescola alle lacrime che gli cadono dagli occhi.
«Torna indietro».
Andrea scuote la testa.
Non c'è un posto in cui tornare.

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Concorso: Tre Parole, Una StoriaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora