Prologo

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Il peggior San Valentino della mia vita.

Come direbbe Bea, un San Valentino del cazzo.

Nonostante fossero le prime ore del mattino, New York era in fermento. Energia pura che vibrava. Solo qualche giorno fa mi sarei lasciata travolgere dalla vita newyorkese, avrei ascoltato incantata lo strombazzare dei clacson, le sirene spiegate delle ambulanze che cercavano di farsi strada nel traffico. Avrei ammirato le classiche scene da commedia americana con i taxi che sfrecciavano lungo la Broadway, il fumo che usciva dai tombini, i muri di turisti che si mescolavano con le loro macchine fotografiche e il caffè d'asporto ai pendolari, i fiumi di persone che uscivano ed entravano in metropolitana.

Avrei respirato a pieni polmoni l'odore degli hot dog venduti a ogni angolo della strada dai food trucks e avrei persino respirato la cappa di smog che avvolgeva la Grande Mela.

C'era qualcosa di magico e irresistibile in New York.

Sposava alla perfezione il motto americano The show must go on, era la città delle seconde occasioni.

Invece quel gran spettacolo incasinato che era la mia vita aveva chiuso i battenti per flop.

A quanto pare, anche questa volta ero arrivata troppo tardi a prendere il treno delle opportunità. Sentii una stilettata al petto, quando la realtà mi colpì di nuovo in pieno viso togliendomi il respiro. Era come ritrovarsi sott'acqua in apnea.

Nessuna ragione per reagire.

Nessun appiglio al quale aggrapparsi.

O forse volevo farmi trascinare sul fondo e lasciarmi annegare.

Avevo pensato di buttarmi pure dal ponte di Brooklyn e annegare nell'Hudson, oppure di non dare retta alla scritta don't walk del semaforo pedonale e farmi stirare da un taxi in corsa.

Come avevo fatto a cacciarmi in quella situazione? Quale seconda occasione? Davvero! Nel giro di poche ore ero passata dall'avere per fidanzato un milionario sexy e innamorato perso, a girovagare senza meta per Times Square, il centro pulsante della Grande Mela, come se fossi appena uscita da una puntata di The Walking Dead.

Ero uno zombie. Il volto era privo di colore, gli occhi gonfi dal pianto e l'umore sotto i piedi. Facevo pena a me stessa.

Lo strombazzare di un clacson mi fece sobbalzare e sbattei più volte le palpebre. Le lacrime si erano impigliate nelle ciglia, offuscandomi la vista e impedendomi di mettere a fuoco quando il semaforo dei pedoni sarebbe scattato sul verde.

Tirai su il bavero della giacca e nascosi il viso fino al naso. Era una mia impressione o tutti stavano fissando i miei occhi rossi?

Perfetto! Ero single, in lacrime, con la fedina penale macchiata. A New York.

Durante la giornata mondiale dell'amore!

No, il mio San Valentino non si avvicinava minimamente a un biglietto di Hallmark. Dovevo andarmene il prima possibile. Da lì a poche ore sarei tornata a casa con una valigia ancora dispersa per il continente americano, un trolley colmo di vestiti nuovi racimolati grazie ai saldi e la dicitura disoccupata sotto la voce professione della mia carta d'identità.

Poteva andarmi peggio di così? Sì, dissero tutti in coro. Avevo anche il cuore infranto. Chissà se attraverso il metal detector sarebbero riusciti a vedere che era a pezzi. «Qualcosa da dichiarare?» «Sì, non ho più un cuore, mi è stato strappato via dal petto.» Ancora? (Sempre in coro.)

L'uragano Christian Kelly si era abbattuto una seconda volta sulla mia esistenza con forza cinque, che Katrina in confronto sembrava la bora di Trieste.

Dannazione! Avrei voluto più tempo, avrei voluto il tempo di una vita e forse anche quella non sarebbe nemmeno bastata.

Invece mi ritrovavo nella città più bella e romantica del mondo, nel giorno degli innamorati e delle frasi diabetiche, da sola, a raccogliere i cocci del mio cuore e con un grande vuoto che col passare delle ore si stava espandendo nel mio petto.

Dovevo lasciare New York, dovevo assolutamente rientrare in Italia e ritornare al mio piano originale: alzarmi, andare al lavoro, pranzare con la triade delle mie migliori amiche, tornare in ufficio, sorbirmi qualche cazziatone dalla Rottweiler, rincasare, guardare un film sul divano io e il mio fedele barattolo di gelato al doppio strato di cioccolato.

Per una volta avrei dovuto ascoltare mia madre per risparmiarmi la serie di te l'avevo detto, non ascoltare mai i tuoi genitori, saremo più vecchi per qualcosa.

Odiavo leggere un libro e sapere già la fine, ma di questa storia avrei voluto avere in anticipo qualche spoiler sul finale. Mi sarei risparmiata tredici ore di volo, un arresto per atti vandalici e un cuore infranto.

Trattenni un singhiozzo, rileggendo l'sms di Marco.

Dove sei? Perché non vieni al Marquis e ci rilassiamo nella spa?

Rilassarmi? Impossibile, ero furiosa. Incazzata nera col mondo, con Christian, con la vita. Soprattutto con me stessa, perché c'ero cascata un'altra volta, perché avevo rimesso in gioco il mio cuore ancora una volta.

Avrei voluto girare con un bazooka e sparare a tutte le coppie che incontravo per strada e alzare il dito medio a tutti quelli che mi fissavano. Senza contare che la mia testa premeditava un omicidio di primo grado.

No, pensai infilando il cellulare in tasca, un massaggio ayurvedico e dei campanelli tibetani non erano quello di cui avevo bisogno.

Potevo sentirmi peggio di così? Mi sembrava di assistere alla vita da semplice spettatore. Ero attorniata da persone che camminavano impettite nel freddo newyorkese, persone con i loro drammi, i loro dubbi, le loro gioie e le loro vittorie giornaliere.

Nella nostra vita incrociamo un sacco di persone differenti, ma veramente poche fanno la differenza. Mentre sei lì che fai progetti in formato single della tua vita, incontri qualcuno che con un semplice ciao e un sorriso illegale sposta il tuo asse terrestre, diventando il centro del tuo mondo.

In realtà non mi aveva detto «ciao», ma un «ce l'hai con me?» divertito, dopo che per la seconda volta mi ero spalmata su di lui come un murales. E che muro di muscoli!

Lo strombazzare di un clacson mi ridestò e cancellai immediatamente l'immagine di Christian e del suo corpo scolpito che si era formata nella mia mente.

Dovevo disinstallarlo, dalla testa e dal cuore.

Dovevo sforzarmi di ridere e di restare a galla.

Potevo farcela.

Dovevo farcela.

Poco convinta dell'efficacia di questo discorso automotivazionale, quando il semaforo dei pedoni scattò sul verde, attraversai la strada, incurante dei palazzi di vetro che svettavano imponenti verso il cielo, ignorando il cuore palpitante della Grande Mela che pulsava in ogni angolo.

Anche New York aveva perso tutta la sua magia, ma non era lei, ero io a non essere più la stessa.

Ci avevo lasciato il cuore. 

Il mio lieto fine sei tu Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora