2

1.4K 33 10
                                        

Per arrivare a casa dei miei ci volevano trenta minuti d'auto, due rotonde e un semaforo.

Alla prima rotatoria le mie mani avevano cominciato a sudare, il battito cardiaco era accelerato e il respiro era diventato affannato. Chiari sintomi di un attacco di panico.

Alla seconda, tra un colpo di clacson per una precedenza mancata e un'imprecazione a denti stretti, mi ero ripetuta mentalmente il discorso che mi ero preparata da propinare ai miei.

Ora, ferma al semaforo rosso davanti al Bar Sport del paese, chiusi gli occhi e appoggiai la fronte al volante. Potevo sempre rifiutare il lavoro, venire licenziata e fare la cameriera durante i turni di Champions League. La paga non sarebbe stata stellare, ma almeno potevo sperare in qualche mancia dagli amici di scala quaranta di papà e non correre il rischio di rivedere Kelly.

Dal semaforo al cortile di casa mia avevo già cambiato idea mille volte. Spensi il motore e feci un bel respiro. A ventisei anni temevo il giudizio dei miei genitori, come se stessi tornando a casa con un quattro in filosofia.

Afferrai la borsa e scesi dall'auto. Andrà tutto bene, Gioia, continuavo a ripetermi.

Arrivata davanti alla porta d'entrata, drizzai la schiena: la casa era completamente al buio. Nessuna luce accesa, e la macchina di papà non era parcheggiata in cortile.

Guardai l'ora sull'orologio e storsi il naso. Erano da poco passate le sette, e, spiando furtivamente tra le finestre, non notai nessun movimento sospetto. Tirai fuori le chiavi di casa ed entrai, i miei passi risuonavano nello strano silenzio in cui era avvolta la casa dei miei genitori.

Spalancai gli occhi davanti a quello che mi trovai di fronte. Dovevo fare assolutamente una foto col telefonino.

La casa era deserta, non c'era mia mamma che correva da una stanza all'altra come un'indemoniata con tutti i servizi di porcellana da pulire per il pranzo della domenica. I mobili erano tutti perfettamente al loro posto e non sentivo neppure la tv di papà accesa su Real Time.

Il miracolo.

«Ciao, sono a casa!» urlai.

Come risposta ottenni solo l'eco della mia voce.

«Mamma?» chiamai. Andai in cucina: sul gas non c'era nessuna pentola e la tavola era ancora da apparecchiare.

Porca di quella vacca! Avevano rapito i miei genitori!

Era giovedì, a quest'ora la casa avrebbe dovuto essere in piena rivoluzione per il pranzo domenicale con i parenti. Mia mamma avrebbe dovuto essere occupata a cambiare la disposizione dei mobili, lavando i servizi di Limoges, regalo di nozze, e preparando la lasagna per cena. Tutto senza togliersi mai i guanti da forno. Papà, per sovrastare tutto il baccano, avrebbe dovuto alzare i decibel della televisione, superando il livello consentito, solo per non perdersi una sillaba del suo programma preferito sulla tv via cavo. Salii i gradini per le camere al piano di sopra a due a due, temendo il peggio. C'erano un sacco di casi di femminicidio al telegiornale in questi giorni, ma non credevo che il re della grigliata sarebbe arrivato a tanto con il forchettone delle braciole. Va bene che mia mamma avrebbe esasperato pure un santo!

Con il fiatone aprii tutte le porte delle camere. Niente.

Pure in bagno non c'erano segni di colluttazione. Mi restava un'ultima stanza. La mia.

Aprii la porta e ancora una volta la mandibola toccò terra.

Mia mamma, conciata come Alex di Flashdance, stava pedalando su una cyclette. Indossava un costume sgambatissimo intero, fuseaux neri, calzettoni di spugna e fascetta in testa.

Hai finito le parti pubblicate.

⏰ Ultimo aggiornamento: Jul 21, 2016 ⏰

Aggiungi questa storia alla tua Biblioteca per ricevere una notifica quando verrà pubblicata la prossima parte!

Il mio lieto fine sei tu Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora