PETRA E IL MALE OSCURO

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Dicono che sia terribilmente vero quando senti la morte avvicinarsi.

Più di una sensazione, più di un presentimento. Un richiamo vero e proprio.

Come quando attraversi la strada, lontano dalle strisce pedonali, e hai un nodo viscerale mentre osservi la macchina che non rallenta e speri,speri, con tutto te stesso, di scamparla per quel colpo di testa improvviso.

La differenza nel mio caso è sottile. Io non mi auguro di scamparla.Non voglio vivere con la sensazione di aver fallito, il peso di sguardi compassionevoli delle persone che hanno incrociato la mia vita. Non voglio sopravvivere come un vegetale. Voglio semplicemente scomparire.

Mene sto qui nel mio misero buco. Un monolocale in San Salvario. Buffo come non ci sia nulla di così salvifico in tutta questa situazione.Ascolto i giovani della mia età gridare da una parte all'altra della strada, alterati da droga e alcool. Danzano sul filo del rasoio senza neppure prestarci attenzione.

Percepisco i bassi del locale notturno al piano di sotto. Le vibrazioni della cassa che pompa i corpi freschi oltrepassano il muro di cartongesso penetrandomi le vene e le articolazioni, salendo su attraverso la pianta dei miei piedi nudi. È un formicolio che afferra prima le punte delle dita e va pian piano diffondendosi come un torpore di cui si ha familiarità in qualche modo strano, che ogni volta ti prende di sorpresa per il suo improvviso mutamento. Dal dolore al piacere e dal piacere al dolore in un circolo ritmico vizioso.

Osservo le pareti della mia stanza, la mia unica stanza, abbellite di postere scritte «Siamo nani sulle spalle dei giganti»leggo ad alta voce. E i flayer e le cartoline, i disegni, i dipinti.I saluti e i "Ciao sono stato qui" seguito da un "pur io!".Pareti di sorrisi e lacrime. Di vita vissuta e mai completata. L'università, il lavoro, la famiglia, l'amore, l'amicizia.Un'infinità di lasciati in sospeso.

Le bollette adagiate sul comodino riposano placide, ma non troppo.Stanno sull'attenti. Vigili nel loro silenzio. Il mio ultimo contoin sospeso è Equitalia. E giuro di non sapere neppure perché sonotra la lista delle persone a cui amorevolmente scrivono. Non soneppure chi sia Equitalia, che rappresenta oggi questa parola? Noncredo sia una cosa positiva e neppure equa. Solo un cappio intornoalla povertà dei miei tentativi d'aver qualcosa in più. Forse non era neppure il mio di tentativo, non ho mai letto le lettere, forse era il tentativo dei miei genitori d'avere un divano nuovo. Sono un debito di falsa vita quelle lettere. Una bara con i fronzoli per chi non deve e può permetterseli.

E il telefono squilla. Osservo lo schermo a cristalli liquidi. Una piccola cornetta pulsa nel suo centro. È urgente! Sembra comunicare la vibrazione che quasi sposta il piccolo oggetto dal suo asse.

Vedo il numero della proprietaria dell'appartamento, mi chiama per i suoi fottuti trecentocinquanta euro. Trecentocinquanta euro di possesso. Un posto come questo non vale neppure il sudore di un bambino che gioca, figuriamoci di una persona che prende cinquecento euro al mese per mantenersi. Ma che ne sanno loro? Che ne sanno della fatica, della disillusione, della precarietà vera, quella mentale e spirituale, oltre che di quella di cui parlano i giornali?

Gridano alla televisione e sulla radio che il nostro problema è la disoccupazione e noi annuiamo. Come automi, come coglioni. Ma loro sanno, sanno benissimo che il problema non è quello, il problema vero è la perdita di tutto, anche del senso di quello che facciamo,di quello che mangiamo e di quello che sentiamo, se arriviamo a sentirlo.

Ho smesso molto tempo fa d'aver fiducia in Dio. Non m'importa un cazzo di quello che ci sarà dopo. Sicuramente sarà meno oneroso di quello che porto sulle spalle oggi. Almeno non dovrò pagare il canone Rai.

La solitudine, quella più comune e diffusa, è quella dei numeri dispari. È sempre stato così, fin dall'inizio, il sentirsi fuori posto, il sentirsi distante, il sentire che la felicità è qualcosa di inconcludente e passeggero.

Questa sera sono da sola. Uno è il primo numero dispari, il primo numero che diviso per sé stesso da' sé stesso. Ecco perché dopo essermi guardata intorno per un altro istante decido di alzarmi e dirigermi verso il bagno.

"Aiutati che il ciel ti aiuta.." mi dico.

Con una pace interiore che quasi non sembra appartenermi prendo il cesto delle medicine.

Le raccolgo in una busta di plastica e l'appoggio sul divanoletto rosso. Osservo tutta la carica di medicine che in questi anni per una cosa o l'altra ho dovuto ingurgitare a forza. Il telefono riprende a squillare e vedo il nome di Rouge lampeggiare con costanza spasmodica. Forse lei è l'unica che può comprendere davvero quello che sto per fare.

Ignoro la chiamata e mi avvicino al piccolo frigo incassato nel cucinino spento. Lo apro e tiro fuori la mia bottiglia di vodka liscia. La porto all'altezza del naso e la sfioro. Il primo brivido freddo mi attraversa. Sorrido tristemente e guardo al di là del liquido denso e trasparente.

Tutto ciò che vedo è deformato. I muri, i quadri, il divano, le scritte e le foto. Facce e sorrisi trasmutati in qualcosa di muto.

Il peso eccessivo della bottiglia fa' tremare il braccio teso e l'abbasso arrendevole. Non ho mai tollerato più di tanto il dolore. Ecco il perché della geniale idea di un cocktail di farmaci.Ho letto da qualche parte che è come addormentarsi. Devo solo fare attenzione a mischiare nella giusta quantità. Per sicurezza ho deciso di abbondare di tutto. È notte. E domani sera, sperando d'essere già morta, ho organizzato un appuntamento con la proprietaria del buco. Sarà un bel regalo di Natale per lei.

Sarà un bel regalo per tutti gli stronzi, freddi e scortesi vicini che non sanno neppure d'esser vivi, che non ti salutano per le scale. Che si trascinano nei loro buchi riscaldati. Che comprano e comprano e poi buttano senza neppure guardare.

Il mio unico e più grande dispiacere è non vedere i miei più cari amici, quelli che hanno avuto un valore per me, ma che non hanno saputo rimanere integri sotto il peso della quotidianità e dell'abitudine che l'esser in vita comporta. Ma per loro ho un regalo speciale, molto speciale. Una lettera per ognuno di loro. Una lettera che spero possa aiutarli a comprendere il valore di quello che io ho deciso di togliermi consapevolmente.

Riccardo dirà che sono la solita protagonista, che s'è martirizzata perché pensava di fare del bene al prossimo, ma lui non capirà con quanto egoismo compio questo gesto. Riccardo non ha mai capito un cazzo della sofferenza, se non di quella fisica, il suo miglior feticcio.La prima lettera sarà per lui.

Li immagino al mio funerale, piegati per un giorno da qualcosa di inaspettato. Li immagino e il cuore mi si stringe in una morsa perché vorrei poterli abbracciare uno a uno e dirgli quello che non ho mai detto loro. Anche un vaffanculo.

M isiedo sul divano e apro la vodka, con un colpo secco do la prima golata. È forte e aspra. Scivola nella mia gola ed è fuoco liquido.Come un cesto di caramelle il sacchetto dei farmaci mi chiama invitante dal lato sinistro del divano.

Prendo il primo blister. Lo svuoto in una ciotola e così continuo con tutti gli altri finché la ciotola non è colma di pasticche di ogni tipo,colore e forma. Sembra una scodella della colazione carica di cereali per bambini.

La canzone Something's got a hold on me risuona di sottofondo mentre completo l'ultima lettera, quella peri miei genitori.

Metto in ripetizione la canzone e ingurgito le prime caramelle speciali.E di nuovo. Canticchio. Ingurgito e poi annaffio con la vodka e così via. Ancora e ancora.


La vista inizia a riempirsi di pallini neri, come dei buchi nella visuale, e io non demordo. Continuo imperterrita. Le braccia si fanno sempre più pesanti e sento Etta James dirmi Let me tell you now, my heart feels heavy, my feet feel light, i never felt like this before. Something's got hold on me that won't let go..I never thought it could appen to me. 

E poi più nulla, solo l'eco delle mia ultima notte.

CARTA, FORBICE, SASSODove le storie prendono vita. Scoprilo ora