Capitolo 1

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Il sole caldo di giugno irrompe con prepotenza nella stanza.
Un continuo martellare mi costringe a svegliarmi. Apro gli occhi lentamente e il mal di testa minaccia di aumentare di intensità.
Sapevo che sarebbe successo, come ogni volta che quest'incubo ritorna.
Mi alzo e prendo la maglia grigia con la stampa del ramen e il jeans che ieri ho preparato sulla scrivania.
Provo a calmare il mal di testa con una bella doccia calda ma senza risultati. Mi guardo allo specchio e applico del correttore per nascondere i segni violacei che si sono formati sotto gli occhi.
Devo per forza prendere la pillola, altrimenti oggi non riuscirò a fare nulla. Più ci penso, più provo a concentrarmi sui dettagli e più il mal di testa aumenta. Eppure riesco ancora a sentire l'urlo della donna nella mia testa quasi come se fosse stato reale e non solo un sogno.
«Angelica ti vuoi muovere? È tardi!» urla mia madre dalla cucina.
«Sono pronta mamma, tranquilla» le rispondo uscendo dalla mia stanza.
Passo davanti quella dei miei fratellini che stanno ancora dormendo e mi affaccio per guardarli, sorridendo. Anche se sono stati adottati, li adoro.
Sento mio padre salutare e uscire di casa per andare a lavoro mentre io entro in cucina.
«Non capisco proprio perché devi andare a lavoro. Hai diciannove anni, io e tuo padre abbiamo un bel lavoro. Non ti manca nulla» mi ripete per la millesima volta mia madre mentre si aggiusta i capelli neri. I suoi occhi verdi mi scrutano in cerca della risposta alla sua domanda.
«Te l'ho già detto altre volte, non voglio pesare su di voi. E poi è un lavoretto estivo, a settembre torno a scuola.»
«Ecco quello che dovresti fare: studiare! Almeno non perdi di nuovo l'anno.»
La fulmino con lo sguardo ma decido di lasciarla perdere, è inutile provare a convincerla che non è come crede.
Sospiro affranta mentre mamma mi passa una pillola e una lettera.
«Hai urlato stanotte, immagino che tu abbia rifatto quell'incubo.»
Annuisco e ingoio la mia medicina, l'unico modo che ho per farmi passare questi mal di testa opprimenti.
Mi rigiro il pezzo di carta tra le mani tremanti e deglutisco prima di poterla aprire. So bene cos'è. Come al solito è senza mittente e non riporta nessuna firma.
Al suo interno trovo un'altra di quelle foto, foto di me scattate di nascosto. Questa volta mi ritrae fuori scuola, rannicchiata su me stessa a piangere.
Il respiro si fa più pesante e mi sembra che si blocchi in gola.
Mia madre è di spalle e non se ne accorge, quando arrivano queste lettere lei pensa sempre che sia un ammiratore segreto. Non sa cosa contengono realmente.
Avvicino la mia maglia al naso così da sentire il profumo di bucato e quello alla vaniglia che ho spruzzato.
È un metodo che uso per calmare il respiro e funziona quasi sempre.
Non appena sono sicura di essere più tranquilla , nascondo la lettera nello zainetto nero che indosso e saluto mia madre.

Camminare per la città con gli auricolari mi rilassa ed è per questo che ho chiesto a mia zia Anita di non venirmi a prendere sotto casa ma di aspettarmi al bar di fronte la mia scuola.
Da poco ne è diventata la proprietaria e appena ha saputo che ero in cerca di lavoro, mi ha proposto di andare da lei.
Da un lato mi dispiace che il vecchio proprietario abbia dovuto chiudere. Lui era gentile e disponibile, il bar era sempre affollato e ogni mattina era un'impresa riuscire a trovare qualcosa di buono da poter mangiare.
Inoltre ci lavorava un ragazzo che conosco da tanto tempo, Fabio, e devo ammettere che era bello vederlo ogni mattina prima di entrare a scuola.
Dall'altro lato, sono curiosa di vedere le modifiche che mia zia avrà apportato al locale.
Non appena svolto nella strada della scuola, riconosco subito la figura slanciata di Anita.
Nel momento in cui mi vede, si allontana dal muro a cui era appoggiata e mi viene incontro, abbracciandomi.
I suoi bei capelli castani sono legati in una coda e porta gli occhiali da sole. Ricca, bella e single, una donna da invidiare.
Dopo avermi salutata e aver scambiato vari convenevoli, ci dirigiamo verso il bar.
«Tua madre è ancora contraria al farti lavorare?»
«Purtroppo sì.»
«Mi dispiace che tu abbia perso l'anno, soprattutto ora che avresti dovuto fare l'esame. Ma tranquilla, ti capisco, la tua età non è semplice.»
Mi limito a sorriderle, confortata dal fatto che qualcuno non mi giudichi. È difficile spiegare qualcosa di cui nemmeno tu sai il motivo. So di aver perso l'anno per una sciocchezza e che se non avessi fatto tutte quelle assenze sarei passata tranquillamente.
Ma ogni mattina per me era una guerra contro me stessa, non riuscivo ad alzarmi. Mi sentivo debole, incapace di affrontare il mondo fuori dalle quattro mura della mia stanza. E le giornate le passavo a piangere, a disperarmi, a chiedermi il motivo di quel blocco. Ma non trovavo risposte da nessuna parte, eravamo solo io e il mio dolore.

«Angelica, sei arrivata al momento giusto, sai? Grazie a te, ho più tempo per poter trovare qualche cameriera in vista di settembre. Spero che il lavoro ti piaccia e che andrai d'accordo con gli altri dipendenti» la voce di mia zia mi risveglia dai miei pensieri e le sorrido.

Azzardo a guardare l'edificio di fronte al bar, i tre piani che ogni mattina dovevo salire per arrivare nella mia classe, e mi chiedo come sarà il prossimo anno.
Cerco di non pensarci e di concentrarmi sul ragazzo di spalle che mi sembra di conoscere. Non può essere lui!

Ma quando si volta i suoi occhi chiarissimi si scontrano con i miei, allontanando ogni mio dubbio.

«Angelica, ti presento...»
Ma io sono bene chi è.

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